Allora, forse, daremo fuoco al sistema

Allora, forse, daremo fuoco al sistema

Premesse

«Noi sappiamo che nel capitalismo la violenza di genere è una condizione sistemica, non un’interruzione dell’andamento regolare delle cose; Profondamente radicata nell’ordine sociale, non può essere compresa né riformata quando la si isola dal più vasto insieme della violenza capitalista: la violenza biopolitica delle leggi che negano la libertà riproduttiva; la violenza economica del mercato; la violenza di Stato della polizia, dei tribunali e delle guardie carcerarie; la violenza simbolica della cultura maggioritaria che colonizza le nostre menti, travolge i nostri corpi e silenzia le nostre voci; la  violenza contro l’ambiente che erode il nostro habitat e la violenza capitalista nelle nostre comunità sociali e politiche. La lotta contro la violenza di genere e la lotta contro ogni forma di violenza nella società capitalista (e contro il sistema sociale che le sostiene) dovrebbero legarci uno all’altra in maniera indissolubile, e permetterci di costruire insieme le prospettive e le strategie future per cambiare questo sistema competitivo e feroce e individualista. Per davvero

Cinzia Arruzza – Tithi Bhattacharya – Nancy Fraser

“Femminismo per il 99% – Un manifesto”

È doveroso iniziare con alcune premesse: scriviamo questo testo collettivo perché crediamo di essere giunte ad un limite di sopportazione silenziosa non più tollerabile; consapevoli, perciò, che una buona dose di lucida rabbia muova parte delle nostre parole.

Ad ogni modo, rivendichiamo l’obiettivo di intrometterci nelle comunicazioni “di ordinaria militanza” affinché si possa spingere l’ambiente politico che da anni attraversiamo (e che è quindi anche nostro) a compiere una riflessione di fase difficile quanto coraggiosa.

L’analisi collettiva, pubblica e il più possibile onesta sul tema del sessismo interno ai movimenti, è a nostro parere indispensabile per il superamento di dinamiche incancrenite e malsane, che da troppi anni fanno da impedimento ad avanzamenti collettivi, augurandoci ovviamente che questi possano avvenire al più presto, laddove non siano già in moto.

Scegliamo, in questo caso, di avere come interlocutore e destinatario primario lə compagnə. Non è l’approvazione maschile ciò che stiamo cercando, e anzi ci scusiamo fin da subito se infastidiremo qualcheduno.

Ci sforziamo – non senza fatica – di esporci e di metterci al centro del dibattito, proprio perché nutriamo la speranza che altre compagnə possano alimentare la fiamma di una discussione sinergica, che non può che iniziare ad ardere e divampare all’interno dei nostri contesti d’azione e di lotta.

Non abbiamo la pretesa di parlare a nome di tutte le sperimentazioni di Movimento esistenti e il nostro scritto non pretende di avere termini assoluti. Siamo perfettamente consapevoli che ciò che muove questa analisi è frutto delle nostre esperienze personali, locali e specifiche, e ci auguriamo vivamente che il nostro trascorso soggettivo sia il meno diffuso possibile.

In un’ottica di condivisione costruttiva di pratiche, crediamo sia importante aprire una breccia di confronto, qualora vi fossero elementi comuni o simili anche altrove, o se, ad esempio, tali similarità siano esistite e si sia trovato un modo collettivo per superarle.

Tutto questo perché è evidente che, anche all’interno del Movimento, ancora troppe di noi siano costrettə a vivere una contraddizione insanabile: gli stessi ambienti che si ripromettono di combattere le putride dinamiche della società in cui viviamo, le riproducono al proprio interno. Stiamo parlando di dinamiche discriminatorie, di dinamiche sessiste, che denotano una presenza radicata ed internalizzata, in altre parole strutturale, della prevaricazione violenta. Violenza che spesso non si manifesta unicamente nelle sue forme più estreme, ma di cui viene fatto un uso ragionato anche nelle sue espressioni più subdole e sottili. Le conseguenze di ciò, ricadono ovviamente su di noi.

E allora, compagnə, superiamo la paura e bruciamo una volta per tutte questa coltre di indifferenza, contraddizione ed inidoneità ad un progetto rivoluzionario che possa definirsi tale, con la quale abbiamo sinora accettato di ricoprire il nostro agire politico collettivo.

 

Sul ruolo di cura a cui siamo relegate, ovvero il tempo sottratto alla lotta

«La lotta contro il sistema che ci circonda non è più importante  della lotta contro quella parte del sistema che abbiamo interiorizzato»

Sappiamo che lottare all’interno di ambiti antagonisti significa principalmente unire le forze per generare nuovi orizzonti di possibilità, aderendo ad un progetto comune finalizzato all’abolizione di questa società capitalista, patriarcale e razzializzata o, se non altro, alla destabilizzazione di essa.

Non crediamo però che “l’essere compagnə” possa ridursi ad una questione di mera appartenenza identitaria, di elezione per sentimento.

Siamo convinte invece che si tratti di un processo che richiede volontà, sforzo e capacità di decostruzione, nonché una quotidiana e costante pratica di messa in discussione di ciò che noi stessə abbiamo interiorizzato del sistema che combattiamo.

In quanto militanti, abbiamo sempre questionato il nostro ruolo di donne all’interno di un sistema oppressore capitalista che, oltre a depredare le nostre energie ed il nostro tempo in nome del profitto, ci ha addossato anche il lavoro riproduttivo rendendo, di fatto, la cura una vera e propria prestazione non retribuita che quotidianamente ci viene richiesta e a cui sempre ci sentiamo chiamate a rispondere.

Come compagne, come donne che lottano, non possiamo non chiederci se anche i nostri ambiti di azione politica ci abbiano relegate ad un ruolo di cura che non ci compete, solo perché donne.

Secondo la nostra esperienza, crediamo di poter affermare senza troppi giri di parole che ogni volta in cui accade un episodio di violenza di genere all’interno dei nostri gruppi politici, oltre a dover spesso combattere perché questo venga riconosciuto come tale, e non soltanto come una questione personale tra le individualità coinvolte, ci viene anche richiesto di essere la soluzione. Ricade indirettamente su di noi la responsabilità di ideare e accompagnare percorsi di riabilitazione per le comunità in cui la violenza è accaduta, talvolta addirittura con gli stessi soggetti che l’hanno agita.

Ci viene chiesto di spiegare loro perché hanno sbagliato, di offrire consigli, attenzioni, libri da leggere, seminari da seguire; ci viene chiesto di saper perdonare e mostrare loro la via per la redenzione. Il tutto mentre le nostre comunità si indeboliscono così come ci indeboliamo noi, sopraffattə dalla fatica; mentre i rapporti si crepano, le nostre vite vengono assorbite – se non addirittura travolte per sempre – non solo dalla sopraffazione dell’abuso che noi o una nostra compagna abbiamo subito, ma anche dalle conseguenze emotive che la riparazione di quel danno (per il quale noi non abbiamo alcuna responsabilità) porta inevitabilmente con sé.

Di fatto, ci troviamo costrette ad interrompere il nostro lavoro politico all’interno degli spazi in cui militiamo per addossarcene uno ulteriore, altrettanto politico s’intende, ma il cui peso ricade principalmente su di noi, anche quando non ne sentivamo il bisogno.

Ed ecco che, d’un tratto, dobbiamo improvvisarci mediatrici, psicologhe, sociologhe, esperte in gender studies, così da poter accompagnare verso la salvezza del femminismo i “compagni che sbagliano”, ai quali invece spetta un ruolo troppo spesso passivo in questo teatro. Spettatori immobili, impreparati e talvolta un po’ annoiati, se non addirittura (nei peggiori dei casi) sabotatori lucidi delle nostre fatiche.

E dopo anni di lotte per difenderci e farci capire, rallentamenti per aspettare chi non ce la fa, traumi se quelle violenze ci riguardano in prima persona, dopo anni di lavoro di cura fisico e psicologico all’interno degli spazi che pensavamo di aver liberato, ci troviamo ancora qui, a rivedere alla moviola l’ennesima violenza di genere, l’ennesima espressione machista di un branco, l’ennesima sopraffazione figlia di un modello patriarcale che dovremmo stare combattendo tuttə, e che riguarda tuttə, nessunə escluso.

L’estrazione da una palude che non fa che risucchiarci verso il basso sembra impossibile, soprattutto quando attorno troviamo poche mani tese ad aiutarci. Siamo – di fatto, e nonostante gli sforzi profusi – ancora impantanatə in questo stagno, che ci ricorda non solo che i nostri ambienti non sono migliori di ciò che c’è al di fuori, ma che, ancor peggio, rivelano in seno una contraddizione ben peggiore, per alcunə di noi addirittura insostenibile, che finisce per consumarci doppiamente.

Come viene ben evidenziato nel fascicolo scritto nel 2009 dalle compagne di Barcellona “Tijeras para todas, textos sobre violencia machista en los movimientos sociales”, non facciamo che sottometterci allo stesso schema:

“Di fronte al rischio di un conflitto si acutizzano i ruoli di genere prestabiliti, che per donne significa assolvere alla funzione di mediazione, pacificazione, comprensione.

(…) Questo a sua volta rende evidente quanto profondamente siano radicate le forme eteronormative nel nostro agire: la definizione di ciò che è pubblico e politico segue i canoni dell’universale maschile, e le donne assumono discorsi costruiti in questa chiave e presentati secondo questa logica, smettendo in tal modo di politicizzare questioni che ci riguardano per non annoiare o non essere al centro dell’attenzione, perpetuando così la smania di approvazione tramite lo sguardo maschile e le forme di relazione tra i sessi. Di nuovo ci hanno fregate e ci dedichiamo a cooperare perché niente cambi.

Si tratta di una vera e propria trama capace di tenere saldamente insieme tutti questi comportamenti, un filo “logico” che attraversa le già citate dinamiche, scoperto il quale sentiamo di dover mettere fine una volta per tutte alla nostra ipocrisia: in molti collettivi militanti avviene – e soprattutto si rafforza quotidianamente – la normalizzazione dei ruoli di genere.

Ci sentiamo di dire che, non solo nella realtà sociale, ma anche al nostro interno, viene riprodotta ed enfatizzata la “naturale” e dicotomica opposizione tra il maschile e il femminile, in cui le categorie esistono solo in quanto contrapposte l’una all’altra, secondo una relazione gerarchica; i soggetti sono pertanto tenuti ad acquisire un ruolo di genere statico e prestabilito, a cui corrisponde “naturalmente” un ruolo di genere predominante (il maschile), associato a determinate caratteristiche, ed uno derivato (il femminile), associato ad altrettante determinate caratteristiche, spesso però opposte.

Il sunto è: i maschi sono predisposti a […], le femmine a […], ed essendo predisposti, è naturale che […].

Concezione antiquata non trovate? Talmente antiquata che questo presupposto è stato affrontato e decostruito dai movimenti femministi, ribaltando la supposta gerarchia, abolendo l’opposizione, rivendicando la possibilità e la necessità di rompere le gabbie imposte.

E allora perché nei nostri contesti di lotta, si fa frequentemente un’enorme fatica a problematizzare l’associazione donna = cura degli stessi? E soprattutto, perché non ci si accorge che questa associazione imposta, deriva in linea diretta dall’aver internalizzato i ruoli di genere come dogmi statici e giustificanti?

Ebbene, pensiamo sia sensato domandarci se sia questo l’unico ruolo che vogliamo ricoprire all’interno delle lotte politiche, e se sì perché.

Crediamo, peraltro, che questo ruolo imposto cozzi fastidiosamente con la realtà dei fatti.

È per molte di noi piuttosto spiazzante realizzare lucidamente quanto – nonostante questo senso di insicurezza che permea ogni cosa – il contributo di ognuna di noi all’avanzamento collettivo della lotta sia stato incisivo e determinante, tanto quanto quello dei compagni che ci circondano; semplicemente il nostro sforzo è stato maggiormente sottoposto ad invisibilizzazione forzata e, per questo, nessuno lo ha notato.

Crediamo sia un esercizio utile da fare collettivamente: moltissime di noi potrebbero con facilità guardarsi indietro valutando oggettivamente la propria storia di attivismo e militanza. Noi c’eravamo sempre. C’eravamo, incordonate insieme a tutti gli altri nelle prime file dei cortei, c’eravamo durante gli scontri, i puntelli strategici, le azioni, le assemblee infinite al freddo; c’eravamo quando c’era da prendersi le denunce, quando c’era da pulire lo spazio a tarda notte, alle levatacce mattutine; c’eravamo a cucinare per tuttə, ad assumerci logistica e organizzazione, c’eravamo in tribunale, a fare l’alba alle taz, ai picchetti, alle occupazioni, c’eravamo con la stessa forza e determinazione di tutti voi. Anche quando ci ignoravate, anche quando venivamo considerate meno significative dei nostri compagni, c’eravamo anche quando ci mancavate di rispetto pubblicamente, quando ci credevate così invisibili da non poter reagire. Noi c’eravamo sempre, ma voi non ci avete mai viste.

E non solo, è tempo di ammettere per onestà intellettuale che se non fosse stato per le compagne molte crepe interne alle varie fazioni di Movimento, per anni apparentemente irrisolvibili, non si sarebbero mai appianate.

Per quanto tempo abbiamo scimmiottato il gioco della guerra interna per aderire ad uno status di gruppo che ci ha voluti nemici di qualcun altro? Cosa sarebbe stato di quei conflitti, se fossimo state solo noi a gestirli fin dal principio? Quante altre tensioni si allenterebbero se qualcuno si facesse da parte?

A che stato di avanzamento sarebbe la nostra lotta se non avessimo dovuto curare “mele marce”, sobbarcarci emotivamente lo schifo che abbiamo dovuto subire e poi risolvere?

Se non avessimo perso tempo a doverci difendere e spiegare, dove saremmo adesso?

A che punto sarebbe il Movimento oggi se non ci fossimo fermate ad aspettare?

E tornando alla cura, vogliamo davvero che gli avamposti di lotta siano occupati dai compagni mentre noi, dietro, correggiamo i loro i modi di fare per evitargli una vergogna? Per proteggere le nostre comunità e le nostre sorelle?

Perché spetta a noi mettere pezze sulle violenze, le sopraffazioni, le personalità tossiche, sul nostro stesso dolore, quando ad agire o a ignorare la violenza sono i nostri compagni – maschi e cis – che peraltro, hanno nelle loro mani, da anni, tutti gli strumenti per lavorare su sé stessi e cambiare?

 

I panni sporchi si lavano in casa, ovvero l’omertà come forma di controllo

«Se fai la rivoluzione ti ricasca tutto addosso perché vai ad agire in una dimensione maschile»

I movimenti autonomi e gli spazi sociali occupati, a differenza delle esperienze partitiche ad esempio, hanno consapevolmente deciso di non separare il personale dal politico. Hanno deciso di rappresentare l’avanguardia per la sperimentazione di nuove forme di socializzazione, così come per nuovi modi di affrontare il consumo, il lavoro salariato e alienante, la cultura totalitaria, escludente e omologante. Temi che non abbiamo avuto paura ad analizzare criticamente in tutti i loro aspetti, temi che devono necessariamente essere politicizzati.

E allora perché, troppo spesso, quando proviamo a riflettere politicamente su una violenza di genere avvenuta all’interno dei nostri ambienti si innesca un meccanismo automatico per il quale siamo costrettə – da regole non scritte ma tuttavia “inviolabili” – a proteggere la nostra comunità dall’onta dallo scandalo che questa genererebbe se collettivizzata?

Come si può crescere come comunità e come individui se ci neghiamo la possibilità di affrontare criticamente questo tipo di avvenimenti?

Perché è così facile incontrare omertà diffusa, atteggiamenti di copertura e minimizzazione all’interno di ambienti che dovrebbero interrogarsi costantemente sul problema della violenza strutturale contro le donne nella nostra società?

Quando un episodio di violenza accade, quello che dovrebbe essere un processo di autocritica e crescita personale e collettiva, può sfortunatamente prendere la forma di un processo vero e proprio, dove però, spesso, la parte lesa finisce col sentirsi la parte imputata, colpevole di aver sconvolto un equilibrio – evidentemente fittizio – che va ripristinato quanto prima, perché si sa: “le questioni di genere, da sempre, spaccano i collettivi”.

Se la parola imputata ci sembra essere eccessiva, possiamo utilizzare tranquillamente quella di indagata in quanto, da quel momento in avanti, ogni azione – passata, presente e futura – della donna coinvolta sarà sottoposta ad un minuzioso controllo, a cui seguirà un giudizio per decretare se il suo comportamento, in quanto “vittima”, sia stato quello corretto da tenere nella sua posizione: ne ha parlato nel modo giusto? Ha scelto il momento adatto per farlo? Non avrebbe dovuto forse farlo prima? Ci è sembrata incoerente o troppo volitiva nell’esplicitare le sue posizioni a seguito della violenza subita? É sicura che si trattasse di una violenza? Abbiamo le prove di quello che sta raccontando? Abbiamo sentito anche l’altra campana?

Sorge spontaneo domandarsi se tanta accuratezza verrebbe ugualmente posta in essere davanti ad un racconto dello stesso fatto nel quale però, ad agire la violenza, fosse stata una persona estranea alla collettività; e la risposta a questo interrogativo non è difficile da trovare: basta pensare a quante volte, seppur basandosi su informazioni sommarie, i gruppi politici si muovono in maniera compatta per rispondere ad un attacco venuto dall’esterno ai danni di un individuo del gruppo stesso. Dobbiamo quindi giungere alla conclusione che esista una sorta di doppia morale che prende le forme del garantismo più estremo quando a commettere un’azione violenta è un membro del gruppo e, invece, del giustizialismo più spiccio quando invece è un estraneo?

Perché parlare apertamente e oggettivamente di una violenza di genere – anche al di fuori del nostro circoscritto ambito d’azione politica, se questo ci fa sentire meglio – significa alimentare un’operazione di macchina del fango con annessa diffamazione strumentale nei confronti della persona violenta e della comunità tutta? É l’atto violento in sé a screditare l’integrità di chi lo compie, o chi si sente libero di parlarne pubblicamente? Perché diventa più importante salvaguardare la reputazione dell’aggressore, piuttosto che tutelare altre compagne dal rischio di incorrere nel pericolo di averci a che fare? Perché di colpo il faro in faccia lo abbiamo noi? Chi e che cosa stiamo difendendo esattamente? E da cosa lo stiamo difendendo?

Per provare a rispondere a queste domande sinteticamente, consapevoli di correre il rischio di generalizzare un po’ troppo: crediamo che i nostri collettivi si sentano costantemente minacciati dall’esterno, e che per questo, spesso, competano tra di loro, in una sorta di “mitologia della purezza” che ci impedisce di guardare verso l’interno con onestà e capacità di analisi lucida.

Il processo di difesa della comunità passa, in questi specifici casi, da una coesione livellante che ha l’obiettivo di creare un’omogeneità identitaria e dunque la riduzione della messa in dubbio. È usuale che ci si senta tenutə a rinnovare questo “patto di fedeltà” in qualsiasi momento, e davanti a qualsiasi azione commessa, anche quando la difesa del branco non fa che stridere nelle nostre orecchie. Un meccanismo che genera, di fatto, l’impossibilità a mettere in dubbio pubblicamente qualsiasi dinamica interna da cui ci sentiamo colpitə o offesə. Qualcuno la chiamerebbe omertà…

É in queste circostanze che rivelare la violenza da parte di un militante (pretendendo magari che ciò sia reso noto anche leggermente al di fuori della nostra assemblea specifica) diventa sovente una battaglia di sfinimento, proprio perché tale riconoscimento rischierebbe di esporre il gruppo alle critiche esterne, ma soprattutto alla pressione urgente di un’autocritica interna, a cui, evidentemente, moltə di noi non sono dispostə.

L’intero meccanismo protettivo che decidiamo di mettere in atto non fa che isolarci ancora di più all’interno di un ambiente che è, già di per sé e per sua natura, isolato.

Riflettiamoci, siamo dispostə – in nome di un’integrità politica a cui crediamo – a giurare lealtà e protezione agli ambienti che spesso ci maltrattano e ci umiliano, alle persone che agiscono violenza sotto i nostri occhi e anche a chi le difende, forte di un ambiente di silenzio omertoso e cameratismo gerarchico?

Quantə di noi hanno accettato il ricatto del “questa cosa deve restare assolutamente all’interno della nostra assemblea”? Ci siamo mai chiestə chi volessimo proteggere?

Noi crediamo che, molto probabilmente, stessimo in fin dei conti difendendo noi stessə.

Spesso cooperiamo meccanicamente nel rinchiudere le violenze che accadono nei nostri spazi all’interno degli stessi perché abbiamo paura, esattamente come si ha paura della mafia in un piccolo paese. Non ne parliamo perché se parlassimo saremmo ancora più solə ed emarginatə, perché il nostro agire verrebbe vissuto come “un attacco alla causa”, verremmo accusatə di disonestà e malafede, e ci dovremmo sobbarcare anche le conseguenze di tutto ciò.

E alla fine, ogni cosa “che resta tra noi” si mostrifica, si sedimenta e non si risolve, proprio perché le collettività – impossibilitate a confrontarsi con l’esterno e manchevoli di strumenti per agire dall’interno – piombano in una coazione a ripetere frutto dell’irrisolutezza, disposte ancora una volta a osservare accadere immutata, solo qualche tempo dopo, l’ennesima cosa “che terremo per noi”. 

È sconcertante constatare come, nonostante la non volontà di agire concretamente sull’accaduto, l’avvenimento violento sia a volte capace di restare nelle comunità come un monito, a ricordarci quanto saremmo più deboli (almeno in apparenza) se anche altrə avessero saputo.

Infine, inconsciamente siamo propensə a tacere, perché se ne parlassimo liberamente e apertamente, rischieremmo di dover rendere conto a noi stessə che i nostri sogni di cambiamento e rivoluzione sono falsi come monete da tre euro.

“Non solo è complice chi difende esplicitamente il violentatore ma anche chi, uomo o donna, fomentando dubbi, diffondendo voci, delegittimando la parola delle donne, crea un clima nel quale gli aggressori continuano a mantenere la libertà di muoversi tranquilli per la città. Complice è anche chi, in nome della “ragion di Stato” e delle priorità politiche, lascia intatte e inalterate le condizioni, i luoghi, le dinamiche nelle quali si è verificata l’aggressione. Complice è anche chi trasforma la violenza nata tra le mura domestiche in una “mancanza di tatto” di un uomo verso una donna, particolarmente sensibile, in una regola della sfera privata nella quale qualsiasi limite risulta sospeso”

(Assemblea delle Compagne Femministe di Roma, 2000)

 Siamo consapevoli che non esista un manuale di femminismo valido per ogni luogo e per tutte le occasioni, non crediamo che sia possibile delineare soluzioni valide per tuttə noi, soprattutto se ad esplorare tale ambito di azione si è solə all’interno di un collettivo, di un ambito militante declinato e strutturato al maschile, che recalcitra o fa da peso morto. Crediamo profondamente nell’autodeterminazione che muove le azioni di ogni singola persona colpita da violenza di genere, a qualsiasi livello, e ne rispettiamo sempre le prassi. Siamo però anche consapevoli che le violenze agite all’interno dei nostri ambiti, risentano di una dinamica particolarmente tossica e ricattatoria, calata in un sistema quasi clanico, che non può non essere presa in considerazione, poiché è capace di creare un contesto ancora più ostile per le donne che desiderano parlare a voce alta di ciò che hanno subito. Senza parlare di quanto possa risultare in molti casi difficoltoso per una donna che ha subito violenza all’interno di ambiti di Movimento, prendere in considerazione – in un simile contesto di ansia da responsabilizzazione – l’idea di una denuncia vera e propria, dato che essa comporterebbe il mettere a rischio lo spazio e la comunità tutta, oltre che l’inevitabile sensazione di delazione, giudizio e esposizione dell’individuo coinvolto, magari già segnato da carichi pendenti relativi alla militanza.

La verità è che noi non sappiamo, e vogliamo avere il diritto di non sapere, cosa fare.

Non sappiamo se sia giusto riabilitare chi stupra, chi ha atteggiamenti squadristi e violenti, non sappiamo se ce la sentiamo, se ne abbiamo le capacità, se siamo forti abbastanza.
Non sappiamo se vogliamo denunciare, se vogliamo parlarne, in che modalità lo vogliamo fare, se vogliamo avviare percorsi, se vogliamo che la nostra comunità politica sia coinvolta nel nostro dolore. Vogliamo avere la libertà di tentennare, vogliamo dettare noi i tempi, vogliamo essere noi, per una volta, al centro del potere decisionale, a costo di rallentare la quotidiana militanza dei nostri collettivi, dato che crediamo che sia paradossale procedere come se nulla fosse nella costruzione comunitaria di un processo rivoluzionario quando esso poggia evidentemente su basi di cristallo.

Non accettiamo di dover essere al tempo stesso la risoluzione ad un problema – che ci riguarda in quanto bersaglio – senza però mai essere fino in fondo accettate e comprese quando indichiamo noi le modalità di tale processo di metabolizzazione. La verità è che non abbiamo soluzioni immediate, e non crediamo sia nostro dovere averle.

Quel che però sappiamo per certo è che per destabilizzare un qualsiasi sistema di potere, sia necessario azionare un detonatore.

É palese che, per alcuni, sia ancora impossibile accettare che la destabilizzazione del sistema di potere in cui troppə di noi sono cresciutə immersə (anche e soprattutto all’interno di alcuni contesti Movimento), si renda possibile solamente rifiutando una volta per tutte queste fantomatiche “buone maniere femministe”, che in definitiva non esistono, non sono mai esistite e non sono dovute a nessun uomo violento.

Qualcuno diceva (e amava recitare a memoria) “la rivoluzione non è un pranzo di gala”. Ne siamo davvero convintə? Per quale motivo molti militanti sono in grado di accettare concettualmente la dittatura del proletariato, ma pretendono che l’abbattimento del patriarcato si faccia con i guanti bianchi e le “giuste modalità”? Chi stabilisce la prassi con cui si intende ribaltare una condizione di oppressione? L’oppressə o l’oppressore?

Forse, semplicemente, non tuttə noi sono prontə a una tale rivolta ontologica, che senza dubbio detronizzerebbe più di qualcheduno. Il re è finalmente nudo e ora lo vediamo tuttə.

 

La retorica del Compagno della Madonna, ovvero il militante eroico

«Ognuno detesta il proprio amore per il Leader.»

Crediamo sia evidente ai più che una delle più grandi finzioni del nostro piccolo-mondo risieda nella nostra auto-narrazione. Essa da un lato, crede di poter abbindolare chi (sempre meno) ci guarda dall’esterno come esempio e modello, dall’altro svia al nostro interno la presa in carico di certe debolezze e fragilità, che per nulla corrispondono all’ideale di forza e integrità morale che molti spacciano per proprio.

In questo racconto tossico ed irreale del nostro agire comune che continua ad esistere, svetta una figura chiave, capace di alimentare con le sue gesta il clima di prestanza e predominio egemonico che sostiene la nostra narrazione: il Compagno della Madonna (da ora C.d.M.). Lo conosciamo tuttə, poiché quasi ogni collettivo misto ne ha almeno uno al suo interno, anzi, potremmo pressoché affermare con certezza che difficilmente esiste un collettivo senza di lui, perché è esattamente a partire da lui che le nostre realtà sono frequentemente organizzate e strutturate. Proviamo a delinearne le caratteristiche.

Il C.d.M. campa di retorica del sacrificio. Ha sposato la causa, aderendo alla lotta al punto tale da vivere un’identificazione totalizzante tra i ritmi della propria vita personale e i ritmi della politica. É colui che c’è sempre, in ogni assemblea, in ogni contesto, in ogni battaglia, è colui che, quindi, ci rappresenta. Il C.d.M. si assume più rischi, spesso ha più denunce sul groppone, talvolta è il predestinato al ruolo di dialogo con la controparte o con le istituzioni. É una persona che ha sempre da insegnarci qualcosa, anche per questo a lui ci affidiamo. É in definitiva un eroe, qualcuno per cui la militanza è una scelta di vita rivoluzionaria e che si assume questo ruolo di responsabilità per il bene di tuttə noi.

Infatti, è colui che sempre designiamo come figura di raccordo, che è spesso detentore eletto della linea politica da tenere in ogni situazione, è colui a cui non è mai negato un intervento, anzi, la cui ingerenza è sempre attesa e invocata in quanto l’unica ad essere considerata – sempre – risolutiva, anche da noi. Gli altri uomini del collettivo lo rispettano, e portano nei suoi confronti una sorta di timore reverenziale, alcuni tendono ad emularlo nella speranza di ottenerne l’approvazione; le donne si sentono grate e riconoscenti se ritenute degne, tra tante, di condividere un poco di quel potere.

Per via del suo sforzo straordinario e valoroso, il C.d.M. ottiene legittimità e riconoscimenti, ma al contempo soffre del peso della responsabilità che tutto questo potere comporta. Egli si immola, e per questo dagli altrə pretende sacrificio. Si lamenta perché non ha mai un momento per sè, perché la comunità non procederebbe senza la sua fatica quotidiana, perché nessunə si sforza di alleggerire il suo peso di dirigenza.  Così facendo, egli accentra sempre più l’autorità, impedendo di fatto a chiunque altrə di intromettersi nel suo ambito di potere.

Come se non bastasse, il tutto accade nella paradossale contraddizione per la quale il C.d.M. non produce alcuno sforzo di cura nei confronti dello spazio e dei suoi progetti; egli si spende per esso solo in un ruolo di rappresentanza manageriale – e può quindi, tramite questa, attribuirsi i meriti degli avanzamenti collettivi. A lui e solo a lui, anzi, permettiamo di assentarsi dai nostri spazi e dalle nostre assemblee, e, nonostante ciò, ad egli è concesso di mantenere le redini e di manovrare a distanza l’intera collettività, in un balletto spesso grottesco fatto di ingerenze da lontano, sgherri assodati al ruolo di intermediari e senso di ossequiosa riverenza degno solo di una Psicopolizia orwelliana.

Col passare del tempo finiamo tuttə per venirne persuasə: il C.d.M. sa fare politica, noi no; per questo motivo a noi tocca una gestione e un’organizzazione logistica delle questioni pratiche, mentre a lui spetta guidare e sorvegliare l’operato collettivo. Di conseguenza noi ci auto-convinciamo di non essere degnə di rappresentare il collettivo pubblicamente e rinunciamo ad assumere certi ruoli (che gli sono esclusivamente dedicati) poiché, siamo sicurə, abbiamo ancora molto da imparare da lui, nonostante – nella pratica – il collettivo si regga letteralmente sulle nostre spalle.

Il C.d.M. è molto spesso un membro fondatore del collettivo – solitamente infatti detiene la conoscenza dell’archeologia storica dello stesso – e impone su di esso un diritto divino, ottenuto grazie alla legittimità dell’istituzione territoriale da lui costituita: è un padre fondatore, e con lui siamo tuttə tenutə a siglare un patto colonico di sussistenza.

Proprio per questo, egli vede il proprio collettivo come un imprenditore vede la propria impresa: si immola perché sia fiorente, e dal proprio ruolo di comando, è in diritto di pretendere di più dai propri dipendenti. Come ogni buon capo di impresa, ha la pretesa di sapere come ottimizzare al meglio le proprie risorse: per questo assegna compiti, conferisce ruoli di snodo, gratifica i propriə “impiegatə” quando svolgono bene il loro lavoro, così come è in grado di impartire punizioni psicologiche attraverso il ricatto della delusione personale.

Il Compagno della Madonna diventa quindi l’ombelico del nostro micro-ambiente, ingombrante sole a cui ruotano attorno tutti i pianeti del sistema solare.

Esattamente come ogni bravo patriarca, ritiene fondamentale il reclutamento e lo “svezzamento” di un piccolo giovane esercito a lui totalmente dipendente, che attraverso di lui cresce, imparando ed obbedendo. Da qui la piaga che ci riduce nelle misere condizioni in cui ci troviamo: la scuola politica dei Compagni della Madonna.

Accettiamo di delegare a queste figure (quando non siamo noi stessə a incarnarne le pratiche) ciò che dovrebbe essere in teoria la nostra più grande potenzialità, ovvero l’aggregazione e la creazione di una coscienza politica nelle generazioni future, l’allargamento alla base necessario per il protrarsi delle lotte che ci toccherà continuare a combattere.

Ecco che il tramandare indispensabile della nostra contro-cultura diventa, attraverso di loro, una prassi strategica ben precisa: quella di formare persone, intercettandole molto giovani, per allevarle secondo il culto della personalità del leader di turno, portandole ad assorbirne in tutto e per tutto ambizioni e desideri, comportamenti e forma mentis. Essi sono in definitiva i figliocci del C.d.M., piccoli eredi di un piccolo e spesso insignificante impero, al tempo stesso garanzia del perdurare del suo regno e del perpetuarsi di tale sistema di potere. Per attrarre e difendere il proprio esercito il C.d.M. promuove un credo di appartenenza identitaria, in cui al centro sta la venerazione della sua stessa personalità – riconosciuta come guida e leggenda – e dove la conquista egemonica del potere, attraverso l’arrendersi degli altrə, è l’unico orizzonte di lotta allettante.

In questa dinamica capillare che pervade tutte le cose, dalle azioni ai cortei, dalle assemblee all’atteggiamento che si ha nei confronti delle altre realtà, ma anche – e soprattutto – nelle relazioni interpersonali, ogni occasione è buona per trasformarsi in terreno di lotta. In questo modo di vivere la politica extraparlamentare più come una guerra che come un’utopia, i corpi delle donne, i nostri corpi – come si addice a qualsiasi guerra – sono spesso il primo bottino di conquista. Ed ecco che, insieme alle medaglie al valore per gli scontri, i processi e chissà quali altre mirabolanti avventure, il leader leggendario vanta anche il primato di playboy, proprio perché il potere di cui è insignito gli concede la sicurezza di ritenersi irresistibile e conteso.

Egli insegna ai suoi figliocci – svezzati e allevati nella sua aura di potere – a sopprimere la naturalezza che dovrebbe contraddistinguere le relazioni intime tra giovanissimə, e trasforma queste ultime in una prassi strategica, dirigendole subdolamente nella speranza di ottenere tornaconti “biopolitici”, spesso addirittura esplicitandolo chiaramente (es: “te la sei scopata? Devi fartela così entra in collettivo / porta gente in piazza / ci fa quello o quell’altro favore…”). Un mito disgustoso di mascolinità egemonica che diventa, senza pudore e nell’impunità generale, un vero e proprio metodo conclamato al nostro interno e persino degno di trasmissione consuetudinaria. È inutile sottolineare quanto questo avvenga, sempre, letteralmente, sulla nostra pelle.

L’esercito del C.d.M., è composto da coloro che hanno trovato (a volte persino inconsciamente) il proprio posizionamento in un sistema che riproduce le stesse modalità gerarchiche e predatorie della nostra società; intercorre tra lui ed esso un legame indissolubile e complementare.

Nell’orizzonte di giustezza e approvazione collettiva in cui noi tuttə posizioniamo il C.d.M. nel suo ruolo di potere, non esiste collettivo più forte e capace del nostro, per lo stesso motivo per cui non esiste nessun militante migliore di lui. Il narcisismo che contraddistingue questa figura (spesso innato come caratteristica umana, ma inevitabilmente anche indotto per via dell’acclamazione del gruppo) lo trascina nel circolo vizioso del percepire soddisfazione soltanto quando negli altri riconosce uno specchio di sé. Tutto ciò che quindi si qualifica come “non conforme”, non solo merita lo stigma, ma è visto e considerato come un nemico politico. Per mantenere incontaminato il suo impero, egli deve isolare ed eliminare sistematicamente chiunque minacci il suo dominio, poiché sarebbe in grado di metterlo in discussione. A tal fine sa ricorrere ad affinate tecniche manipolatorie, a strategie di emarginazione, intrighi e raggiri, inclusa – sovente – l’iconica “macchina del fango”, per la quale torna ad essere utilissima la presenza di quei lacchè, giovani o meno giovani, che impersonificano la discendenza diretta di quel potere che è necessario proteggere.

In questo mondo spregiudicato e violento dove egli è padrone, vige come unica legge quella della forza sopra ogni cosa, della competitività esibita, dell’aggressività tutta rivolta verso l’interno e mai canalizzata verso i giusti nemici.

Come si sottolineava nei precedenti paragrafi, l’esposizione sincera e trasparente delle proprie insicurezze e punti deboli diventa un processo contro-rivoluzionario, un ostacolo reale alla pretesa egemonica sugli altri, che solo attraverso una prepotenza senza scrupoli sarà possibile. L’ammissione di debolezza è un errore strategico, una sconfitta; la virilità esibita e talvolta persino grottesca, invece, rappresenta il più grande strumento di auto rappresentanza.

Capiamo bene che in queste condizioni una messa in discussione di questa figura, sia da parte di sé stesso che da parte della sua comunità di appartenenza, è in qualche modo impossibile. Crediamo per esperienza, che alla base di questa struttura che sorregge ancora troppe delle nostre gerarchie relazionali interne ed esterne, vi sia una maschilità problematica, tossica, egemonica, certamente irrisolta ed insicura, che spesso ci lancia in battaglie assurde, oltre le nostre possibilità e con modalità che – in definitiva – non ci appartengono.

Ad avvalorare questa tesi, il fatto che non esiste guerra più grande per un C.d.M. che competere e gareggiare contro un altro C.d.M. facente parte di un diverso collettivo. Un progetto così serio e rivoluzionario come quello di unire le energie e le competenze per immaginare e costruire un nuovo mondo, spesso si riduce a un gioco puerile tra cowboy, in cui noi finiamo per ricoprire il ruolo che più si addice ai personaggi femminili nei film western: quello delle spettatrici inermi.

Oltre ad interrogarci su quale sia stato il nostro ruolo fino ad oggi, crediamo sia giusto soffermarci, come donne transfemministe, sul nostro agire futuro, una volta preso atto collettivamente dello schema malsano in cui siamo cresciute immerse.

Non troviamo contraddittorio il fatto che i nostri leader incarnino spesso le peggiori caratteristiche del colonialismo (padre fondatore), del patriarcato (pater familias) e del capitalismo (capo d’azienda)? Non abbiamo forse, con le nostre prese di posizione politiche, deciso di vivere il più possibile al di fuori dei dogmi neoliberisti, religiosi e tramandati in millenni di consolidamento dei ruoli di potere? Se l’obiettivo è sempre stato ribaltarli, allora perché continuiamo a permettere che tutto ciò accada anche e soprattutto nei luoghi in cui tutto ciò dovrebbe essere disintegrato e capovolto? Perché sentiamo il bisogno di affidarci a una figura paterna, determinante e accentratrice? Come liberarsene, in primo luogo da dentro di noi?

Sbriciolare il trono su cui si è adagiato il nostro C.d.M e su cui spesso è seduto anche grazie al nostro aiuto, è il primo passo per rimuovere la calcificazione di ruoli; la messa in discussione di queste figure sta alla base di una decostruzione collettiva.

 

Conclusioni brevi (perché non ne abbiamo)

La lotta fianco a fianco è al tempo stesso un’opportunità di crescita ed una formazione. Può trasformare noi che vi partecipiamo, sfidando i nostri punti di vista più radicati e riplasmando la nostra visione del mondo; può essere un mezzo per una più approfondita comprensione del nostro privilegio, ma anche della nostra oppressione: le sue cause, chi ne beneficia, cosa dobbiamo fare per superarla.

L’esperienza della lotta deve essere il mezzo che ci aiuta a delineare chi è nostro alleatə e chi, invece, è il nemicə; può e deve allargare il cerchio di solidarietà tra gli oppressi ed enfatizzare l’antagonismo verso i nostri oppressori.

La condizione necessaria affinché tutto ciò avvenga è la nostra capacità di sviluppare una prospettiva collettiva che ci guidi, che non si limiti a celebrare né tantomeno a cancellare brutalmente le differenze che intercorrono tra di noi.

Ogni forma di oppressione ha le sue forme e caratteristiche distintive, ma ciascuna di esse trae origine da un particolare sistema sociale che le alimenta ed è solo chiamandolo col suo nome – capitalismo – e unendo le nostre forze per combatterlo che possiamo superare quelle divisioni che tra di noi il capitale coltiva: divisioni di “razza”, etnicità, abilità, sessualità e genere. Per riuscirci, però, è necessario ripartire dalla decostruzione, sia personale che collettiva, per comprendere dove siamo posizionatə nella scala del privilegio e cosa distingua i nostri gruppi di appartenenza dal Sistema che da anni urliamo a gran voce di voler smantellare.

Dobbiamo abbattere definitivamente il Super Uomo che c’è in ognuno e ognuna di noi.

Allora, forse, daremo fuoco al sistema. Ma questa volta sul serio.

Se non ora, quando?

 

Le vostre compagne

 

“Questa piccola luce è per te. Portala con te, sorella e compagna. Quando ti senti sola. Quando hai paura. Quando senti che la lotta è dura, cioè la vita, accendila di nuovo nel tuo cuore,

nel tuo pensiero, nelle tue viscere e non tenertela, compagna e sorella.

Portala alle desaparecidas. Portala alle assassinate. Portala alle carcerate. Portala alle violentate. Portala alle maltrattate. Portala alle molestate. Portala alle violentate in tutte le forme. Portala alle migranti. Portala alle sfruttate. Portala alle morte. Portala e dì a tutte e ad ognuna di loro che non è sola, che lotterai per lei. Che lotterai per la verità e la giustizia che merita il suo dolore. Che lotterai perché il dolore che porta non si ripeta in un’altra donna in qualsiasi parte del mondo.

Portala e trasformala in rabbia, in coraggio, in fermezza. Portala ed uniscila ad altre luci.

Portala e, forse, arriverai a pensare che non ci sarà né verità, né giustizia, né libertà nel sistema capitalista patriarcale. Allora forse daremo fuoco al sistema. E forse sarai con noi a preoccuparci a che nessuno spenga quel fuoco fino a che non sarà rimasto altro che cenere.

Allora, sorella e compagna, quel giorno che sarà notte, forse potremo dire con te:

«bene, ora sì cominciamo a costruire il mondo che meritiamo e che necessitiamo».

Allora forse capiremo che comincia il bello, perché adesso ci stiamo solo allenando per essere coscienti della cosa più importante di cui abbiamo bisogno. E quello di cui c’è bisogno è che mai più nessuna donna al mondo, di qualsiasi colore sia, peso, età, lingua, cultura, abbia paura. Perché qua sappiamo bene che quando si dice «basta!» è solo l’inizio del cammino e che manca sempre quello che manca.”

 

Chiusura del “Primo Incontro Internazionale delle Donne in Lotta”

al caracol Zapatista di Morelia, 8 marzo 2018

 

 

 

Allora, forse, daremo fuoco al sistema

 

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