In questa giornata abbiamo deciso di riunirci tutte insieme, in una sorta di rito, quasi come le streghe, attraverso la preparazione di una minestra- pozione che ci è servita non solo per parlare di donne in ottica vittimistica, ma anche in termini di liberazione e di sorellanza.
Zucca, carote, zucchine, olio, zenzero, aglio e cipolla: questa è la ricetta della pozione delle sorelle, che nella giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne e di genere mischiano gli ingredienti della liberazione e della rivoluzione
Come con le cipolle, abbiamo spesso pianto per le ingiustizie, per le ferite e le discriminazioni. Siamo nate con un futuro già scritto, costrette a giocare con le bambole, ad imparare ad essere docili e remissive, a non disturbare mai. Abbiamo dovuto sopportare quel commento per strada, la mano che cade toccandoci il culo, il professore molesto, il medico intrusivo, il capo che naturalmente si aspetta di pagarci meno e perchè no, che qualche prestazione extra lavorativa gli sia dovuta. E dopo queste lacrime abbiamo smesso di piangerle da sole, e abbiamo iniziato a piangerle insieme. A parlare, a scoprire che non era solo nel nostro piccolo che il mondo ci tormentava, ma le nostre piccole e grandi disgrazie erano in realtà un male comune, un regime di genere fatto di dominazione e segregazione. E allora le cipolle che ci facevano piangere abbiamo iniziato a tirarle, a tagliarle tutte insieme per farne cibo per il nostro corpo, zuppe per le nostre menti.
Carote e bastoni: fin troppo spesso abbiamo creduto che fosse normale vivere relazioni in cui veniva somministrato a volte il bastone, a volte la carota. La violenza maschile contro le donne e di genere è strutturale, e riguarda tutti gli ambiti delle nostre vite. Sul lavoro, a scuola, nei gruppi di elezione, in famiglia, in coppia. Nelle relazioni intime può succedere a tutte. Perchè viviamo in una società fondata sullo stupro e sull’abuso, e perchè l’abuso è normalizzato nelle nostre vite quasi che debba inevitabilmente andare così. La violenza è una spirale. Può iniziare con una parola aggressiva, con un ricatto emotivo, con un controllo crescente (sul nostro telefono, le nostre amicizie, le nostre uscite, le nostre vite). Poi cresce e si espande, riguarda la libertà di disporre delle nostre reti di affetti, delle risorse economiche, della casa. Esplode in tante forme, da quella psicologica a quella fisica, può essere sottile e capillare. Molto spesso è un ciclo: arrivano le scuse, i pentimenti. E poi la luna di miele, dove tutto torna meraviglioso, dove ci sembra di poter dimenticare la violenza subita. Che invece torna ancora, perché è una spirale. Non esiste un modo semplice né unico per uscirne. Si possono trovare però delle strade insieme: provando a parlarne con le amiche, con le sorelle, con le compagne. Rivolgendosi ai centri antiviolenza o alle assemblee femministe. La liberazione dalla violenza è un processo lungo e faticoso, ci richiede di trasformare profondamente la nostra vita. E ognuna lo fa a modo suo. Di sicuro, insieme possiamo prendere e spaccare il bastone, e la carota possiamo tagliarla con amore, e gettarla nella pozione magica della sorellanza.
Troppe Zucche abbiamo svuotato, per mettere dentro i lumini con cui ricordato le donne, lesbiche e le persone trans uccise. Dal proprio compagno, da un parente, da un amico. I femminicidi sono ancora oggi decine e centinaia. Non sono frutto di un raptus o della follia di una sera, ma sono l’esito di una questione strutturale che organizza le relazioni fra uomini e donne. A volte, le donne sono così consapevoli del destino che le aspetta, da pagarsi da sole e in anticipo il loro funerale. Non possiamo sopportare oltre di perdere l’ennesima donna, l’ennesima sorella. Da anni gridiamo: non una di meno! A partire dall’8 marzo 2021, abbiamo dato vita a un rituale, con cui ogni 8 del mese ci riuniamo per ricordare le donne uccise. Abbiamo rinominato questa piazza Piazza Non una di meno, e alla fontana abbiamo legato un lucchetto e un panuelo per ognuna che non c’è più. Avevamo bisogno di dire i loro nomi, di non permettere che fossero dimenticate, e di lasciare un monito e un ricordo per chiunque passasse da questa piazza: sono in tante di noi a mancare. La violenza uccide ancora decine, centinaia di donne. Non ci bastano più neanche i lucchetti, i panuelos, le lacrime e i lumini. Per questo oggi non vogliamo più zucche di ricordo, ma zucche da tirare contro un sistema che sostiene, nasconde e riproduce la violenza.
Il motivo per cui molto spesso è difficile uscire dalla violenza è il silenzio che la circonda. Tutti tengono la bocca chiusa, come quando si mangia l’aglio, e dopo per quieto vivere nessuno parla. E’ sgradevole, infastidisce le altre persone, rovina l’umore (e i gruppi di amici, i gruppi di compagni, i festival) non si fa. Per fare un violento ci vuole un villaggio. La complicità e l’omertà sono due dei dispositivi più diffusi e brutali che costringono le donne alla solitudine e al silenzio. E’ difficile raccontare quello che sta capitando perché non sarai creduta, perchè ti verrà detto che è una cosa da niente, che fai tanto rumore per nulla, che il problema sei tu, che tutto sommato, te la sei andata a cercare. A volte sei troppo libera nelle scelte sessuali, altre hai la colpa di consumare alcool o droghe, altre ancora basta il fatto di essere una donna, e quindi sempre e in ogni caso colpevole. In queste reazioni si moltiplica la colpevolizzazione di chi vive la violenza, e scompaiono i nomi di chi la agisce. Gli uomini abusanti, i maltrattanti, non hanno nome e volto, ma sono sempre le donne sotto il fascio di luce delle accuse. Noi vogliamo spezzare il cerchio dell’omertà e della complicità. Vogliamo che ogni silenzio diventi parola, che il disagio conseguente alla denuncia di una violenza diventi un luogo che le persone – uomini e donne – imparino a vivere. Da quel disagio che consegue alla rottura degli equilibri consolidati, fondati sulla violenza, possono nascere relazioni e contesti molto più vivibili per tutte e per tutti. Non chiudiamo più la bocca, come se avessimo mangiato l’aglio. Impariamo a non stare più zitte, ad essere fastidiose, guastafeste, arrabbiate, insopportabili. Questa sera con tutto l’aglio che non abbiamo voluto ingoiare, ci facciamo una zuppa e non teniamo la bocca chiusa.
In questa vita in cui siamo educate al silenzio, alle lacrime e alla violenza, a volte sembra quasi sparire lo spazio per il piacere. La sessualità non ci riguarda, non ci riguarda il godimento. Le zucchine sono solo zucchine, il corpo è fatto per procreare. Eppure, questo corpo che ci è stato spesso sottratto (per fare figli per la nazione, per compiacere un partner o un marito, per esercitare il lavoro di cura verso chiunque ci circondi) è un corpo che desidera, esplode di vita, pretende di godere. Vogliamo finalmente poter vivere vite fatte di piacere, scoprire insieme le strade della sessualità che ci attraggono, che ci incuriosiscono. Vogliamo poter sperimentare da sole, in due, in tante/i. Vogliamo farlo con e senza oggetti, con e senza amore, con e senza relazioni. Così, le zucchine non saranno più solo zucchine, e i nostri corpi diventeranno luoghi da esplorare e far vibrare. La nostra zuppa ci accende anche i sensi, fa venire la pelle d’oca, ci fa sospirare.
Così sulle cipolle, le carote, la zucca, l’aglio e le zucchine irroriamo l’Olio. Olio che lega insieme le nostre vite, che cura le ferite, che lenisce il dolore. Olio che scorre e trasforma, che nasce dal calore del sole, che nutre la nostra pelle, il nostro sangue, il nostro cuore. Non vogliamo più camminare sulle spine ma vogliamo imparare a danzare sull’olio. La nostra è una pratica femminista di memoria, di cura, di rabbia, di lotta e di piacere, nella quale inventare altri mondi oltre l’abuso e la violenza.