In 100000 per le strade di #Roma a gridare: ci vogliamo vive, ci vogliamo libere!!
Ripartiamo col cuore pieno della potenza della marea: da cinque anni, una quotidianità fatta di liberazione e rivoluzione, molto oltre le singole date. Ci siamo ritrovate in piazza per dimostrare al mondo che non siamo sole, per far sentire la nostra voce, per fare sentire la voce anche di quelle donne che non sono più con noi. Ci siamo riunite in piazza per dimostrare che la violenza che subiamo tutti i giorni non ci paralizza, ma ci dà la forza di voler continuare a lottare.
Qui il nostro intervento:
Abbiamo spesso pianto per le ingiustizie, per le ferite e le discriminazioni. Siamo nate con un futuro già scritto, costrette a giocare con le bambole, ad imparare ad essere docili e remissive, a non disturbare mai. Abbiamo dovuto sopportare quel commento per strada, la mano che cade toccandoci il culo, il professore molesto, il medico intrusivo, il capo che naturalmente si aspetta di pagarci meno e perchè no, che qualche prestazione extra lavorativa gli sia dovuta. E dopo queste lacrime abbiamo smesso di piangerle da sole, e abbiamo iniziato a piangerle insieme. A parlare, a scoprire che non era solo nel nostro piccolo che il mondo ci tormentava, ma le nostre piccole e grandi disgrazie erano in realtà un male comune, un regime di genere fatto di dominazione e segregazione. E allora ciò che ci faceva piangere abbiamo iniziato a tirarlo, a tagliarlo tutte insieme per farne cibo per il nostro corpo e per le nostre menti.
Troppo spesso abbiamo creduto che fosse normale vivere relazioni in cui ci veniva somministrato a volte il bastone, a volte la carota. La violenza maschile contro le donne e di genere è strutturale, e riguarda tutti gli ambiti delle nostre vite. Sul lavoro, a scuola, nei gruppi di elezione, in famiglia, in coppia. Nelle relazioni intime può succedere a tutte. Perchè viviamo in una società fondata sullo stupro e sull’abuso, e perchè l’abuso è normalizzato nelle nostre vite quasi che debba inevitabilmente andare così. La violenza è una spirale. Può iniziare con una parola aggressiva, con un ricatto emotivo, con un controllo crescente (sul nostro telefono, le nostre amicizie, le nostre uscite, le nostre vite). Poi cresce e si espande, riguarda la libertà di disporre delle nostre reti di affetti, delle risorse economiche, della casa. Esplode in tante forme, da quella psicologica a quella fisica, può essere sottile e capillare. Molto spesso è un ciclo: arrivano le scuse, i pentimenti. E poi la luna di miele, dove tutto torna meraviglioso, dove ci sembra di poter dimenticare la violenza subita. Che invece torna ancora, perchè è una spirale. Non esiste un modo semplice ne unico per uscirne. Si possono trovare però delle strade insieme: provando a parlarne con le amiche, con le sorelle, con le compagne. Rivolgendosi ai centri antiviolenza o alle assemblee femministe. La liberazione dalla violenza è un processo lungo e faticoso, ci richiede di trasformare profondamente la nostra vita. E ognuna lo fa a modo suo. Insieme possiamo prendere e spaccare il bastone e tagliare la carota per gettarla nella pozione magica della sorellanza.
Troppe volte abbiamo acceso candele per ricordato le donne, le lesbiche e le persone trans uccise. Dal proprio compagno, da un parente, da un amico. I femminicidi sono ancora oggi decine e centinaia. Non sono frutto di un raptus o della follia di una sera, ma sono l’esito di una questione strutturale che organizza le relazioni fra uomini e donne. A volte, le donne sono così consapevoli del destino che le aspetta, da pagarsi preventivamente il loro funerale. Non possiamo sopportare oltre di perdere l’ennesima donna, l’ennesima sorella. Da anni gridiamo: non una di meno!
Abbiamo bisogno di dire i loro nomi, di non permettere che siano dimenticate, e di lasciare un monito e un ricordo: sono in tante di noi a mancare. La violenza uccide ancora decine, centinaia di donne. Non ci bastano più neanche i lucchetti, i panuelos, le lacrime e le candele. Per questo oggi non vogliamo più candele di ricordo, ma sassi da tirare contro un sistema che sostiene, nasconde e riproduce la violenza.
Il motivo per cui molto spesso è difficile uscire dalla violenza è il silenzio che la circonda. Tutti tengono la bocca chiusa, per quieto vivere nessuno parla. E’ sgradevole, infastidisce le altre persone, rovina l’umore (e i gruppi di amici, i gruppi di compagni, i festival) non si fa. Per fare un violento ci vuole un villaggio. La complicità e l’omertà sono due dei dispositivi più diffusi e brutali che costringono le donne alla solitudine e al silenzio. E’ difficile raccontare quello che sta capitando perchè non sarai creduta, perchè ti verrà detto che è una cosa da niente, che fai tanto rumore per nulla, che il problema sei tu, che tutto sommato, te la sei andata a cercare. A volte sei troppo libera nelle scelte sessuali, altre hai la colpa di consumare alcool o droghe, altre ancora basta il fatto di essere una donna, e quindi sempre e in ogni caso colpevole. In queste reazioni si moltiplica la colpevolizzazione di chi vive la violenza, e scompaiono i nomi di chi la agisce. Gli uomini abusanti, i maltrattanti, non hanno nome e volto, ma sono sempre le donne sotto l’occhio di bue delle accuse. Noi vogliamo spezzare il cerchio dell’omertà e della complicità. Vogliamo che ogni silenzio diventi parola, che il disagio conseguente alla denuncia di una violenza diventi un luogo che le persone – uomini e donne – imparino a vivere. Da quel disagio che consegue alla rottura degli equilibri consolidati, fondati sulla violenza, possono nascere relazioni e contesti molto più vivibili per tutte e per tutti. Non chiudiamo più la bocca. Impariamo a non stare più zitte, ad essere fastidiose, guastafeste, arrabbiate, insopportabili.
In questa vita in cui siamo educate al silenzio, alle lacrime e alla violenza, a volte sembra quasi sparire lo spazio per il piacere. La sessualità non ci riguarda, non ci riguarda il godimento. Il corpo è fatto per procreare. Eppure, questo corpo che ci è stato spesso sottratto (per fare figli per la nazione, per compiacere un partner o un marito, per esercitare il lavoro di cura verso chiunque ci circondi) è un corpo che desidera, esplode di vita, pretende di godere. Vogliamo finalmente poter vivere vite fatte di piacere, scoprire insieme le strade della sessualità che ci attraggono, che ci incuriosiscono. Vogliamo poter sperimentare da sole, in due, in tante/i. Vogliamo farlo con e senza oggetti, con e senza amore, con e senza relazioni. Così i nostri corpi diventeranno luoghi da esplorare e far vibrare.
Non vogliamo più camminare sulle spine ma pretendiamo di danzare. La nostra è una pratica femminista di memoria, di cura, di rabbia, di lotta e di piacere, nella quale inventare altri mondi oltre l’abuso e la violenza.
Questo è Il rituale delle sorelle. Questa è la risignificazione di ciò che ha costretto le nostre vite, che le ha condizionate. Oggi ne facciamo cibo comune, lo tagliamo insieme, lo passiamo di mano in mano, lo lasciamo cuocere al fuoco della nostra potenza, lo facciamo diventare nutrimento. Oggi nominiamo le parole che ci liberano dalla violenza, perchè liberarsi è possibile, ma solo insieme. Verso una rivoluzione che sarà femminista o non sarà, non una di meno!