#Abortononseisola… Una sorella ci racconta:

IVG ai tempi del Covid

Ho attraversato una esperienza che si può definire protetta, senza
grossi intoppi, di facile gestione organizzativa.

A marzo con un compagno che, pur nella sua leggerezza, avrebbe voluto
fortemente diventare padre accanto a me, con una casa di proprietà, dei
progetti lavorativi che mi appassionano.

Conosciuti da qualche mese e già parliamo di famiglia, della possibilità
di costruire insieme qualcosa.

Abbiamo iniziato a convivere alla vigilia del lockdown. Senza sapere
cosa ci aspettava.

Quando ho fatto il test, sapevo di essere incinta. Lo sentivo. Ho quasi
34 anni.
Avevo già abortito quando ero troppo piccola anche solo per pensarci, ad un figlio.
Quindi sapevo quale era l’iter: richiesta di analisi delle
urine, Asl di Santa Rosa, mascherine guanti e gel.
Data l’età, tutti quelli che ho incontrato si sono complimentati, dal personale sanitario agli amministrativi.
Quindi mi chiedono perché non voglio il libretto di gravidanza subito. Danno tutto per scontato.

Non volevo passare dal mio medico curante, non avrei sopportato la
sicura ramanzina sull’orologio biologico e sul fatto che avrei dovuto
sapere cosa fare. Non lo sapevo.

La zia del mio compagno è ginecologa. Sono andata da lei a farmi fare la prima ecografia, e mi ha spiegato diligentemente cosa avrei dovuto fare nel caso avessi deciso di tenerlo. Ma mi ha fatto anche la richiesta per l’interruzione di gravidanza.

Sono tornata a casa col magone. Grazie al Covid e alla quarantena la mia vita lavorativa era volata via, il contratto a progetto per
l’associazione per cui lavoravo non sarebbe stato prorogato, ilprogetto saltato, le altre prospettive lavorative rimandate al prossimo anno. La convivenza appena iniziata prima del lockdown mi pesava l’impossibilità di uscire e incontrare amici e affetti anche.

Ho fatto una gran fatica a parlare col mio compagno delle mie ragioni,
ho infittito le sedute dal terapeuta per arrivare ad una decisione
consapevole.

La volta precedente il mio ragazzo dell’epoca mi aveva abbandonata,
tornando nella sua città natale e sparendo, ed io avevo avuto, per
fortuna, l’importante supporto dei miei genitori, che mi avevano
accompagnata all’intervento.

Questa volta invece ho cercato sostegno e supporto per la mia
scelta,pur nella difficoltà di accettazione della cosa, perché lui
voleva fortemente essere padre.

Ho aspettato tanto, troppo per l’aborto farmacologico, perché volevo essere sicura della mia scelta. Ma anche questo non è stato visto di buon occhio. Quando sono arrivata al consultorio, nella sala d’attesa insieme a me c’erano tante donne. L’accesso diretto del servizio
sanitario regionale è una manna dal cielo, ma prendere il numerino,
aspettare ore e ore, ed essere una delle tante che chiede di abortire fa
assomigliare la procedura ad una cosa burocratica.
A prescindere dal lockdown l’atmosfera era la stessa.

Al Palagi le ostetriche sono molto cordiali e in una sorta di
sospensione di giudizio, cosa che invece non posso dire del medico che mi ha visitata. L’età. Giusto, “a quest’età se non vuoi un figlio lo
devi sapere, devi mettere la spirale, non puoi far capitare queste cose
così a cuor leggero”. Il mio aveva il peso specifico del piombo.

“Perché hai aspettato così tanto?”

Perché mi è crollato il mondo addosso, perché non saprei come
riorganizzare la mia vita con un bebè in pancia, perché conosco il mio
compagno da troppo poco e perché non posso nemmeno abbracciare le mie amiche o andare fuori ad allenarmi vi basta? Perché l’angoscia che ho da
quando so di essere incinta non mi fa respirare e non mi sento
tranquilla in questa nuova convivenza forzata? É abbastanza?

Non ho risposto. Quando sei lì nel mezzo ti senti solo mortificata.

Causa Covid mi hanno dato appuntamento a Empoli, in una clinica privata convenzionata. Mi ha accompagnato il mio compagno, ma non è potuto entrare perché i familiari in questo periodo devono rimanere fuori.
Appuntamento alle 8, in fila con le mascherine, ingresso verso le 9 e
30. Poi ti parcheggiano su un letto fino all’ora dell’intervento, le
11.30 circa. Nel frattempo prendi l’antibiotico e le capsule per la
dilatazione del collo dell’utero. A Empoli sono stati tutti molto
cordiali, è che dal punto di vista medico un aborto chirurgico è una
questione da niente, e così viene trattata rispetto ad altre operazioni
importanti.

Entro in sala operatoria, pareti di colori accesi, mi posiziono
sul lettino, il personale sanitario scherza intorno a me, parlano del più
e del meno, mi viene il dubbio che stia veramente facendo la cosa
giusta, ma non concludo il pensiero, perché senza avvisarmi mi hanno
attaccato l’anestetico all’ago cannula che ho sul polso per la
sedazione.

Mi sveglio accanto al lettino dove ho aspettato l’intervento, mi
spostano dalla barella al letto. Ricordo che la volta scorsa mi svegliai con un’ infermiera che mi schiaffeggiava chiamando il mio
nome, quindi non male.

Una cosa di cui forse si parla poco è il dopo. Razionalmente sai di aver
preso la decisione giusta, ma l’esperienza è traumatica, e il periodo successivo è una tempesta ormonale mista alla sgradevole sensazione di esser stata violata, non ascoltata, non supportata, sicuramente non compresa nelle tue ragioni anche se nessuno lo dice apertamente.

#campagnaabortononseisola

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