Ripartire il desiderio

Ripartire il desiderio

Un femminismo materialista

Ripartire dal desiderio (minimumfax 2020), di Elisa Cuter, è un tentativo materialista di leggere i femminismi contemporanei. Il titolo, come del resto la copertina, è già un programma e un’indicazione. Quel «ripartire», ci avverte l’autrice, non deve essere inteso né nel senso ironico del meme né tantomeno nell’oggetto della parodia del meme (la normatività), ma nella sua ambivalenza: ripartenza come ripartizione. Ripartizione del desiderio che richiama, da un lato, il «separare, cioè creare quel conflitto che per me dovrebbe ritrovare rappresentazione nella politica» e, dall’altro, «l’atto del «ridistribuire», possibilmente secondo la famosa massima di Marx: «A ciascuno secondo il suo bisogno» (p. 201). Il desiderio, certo, è qui legato immediatamente alla questione di genere, che costituisce il cuore della riflessione del testo, ma mediatamente richiama un’altra politica, un’altra etica, che sono quelle del materialismo. Se il desiderio è infatti «la rivoluzione permanente, quasi la negazione dell’utopia realizzata una volta per tutte» (p. 202), allora anche un «reddito universale basato su fiscalità progressiva, per fare un esempio, o una forma di governo alternativa agli stati nazione […] hanno bisogno di essere intesi come desiderio prima di poter costituire un programma» (pp. 200-201).

Femminismo e neoliberismo: fenomenologia della speranza

Cuter traccia un’attenta fenomenologia dell’alleanza tra (certo) femminismo e neoliberismo. Alla nuova alleanza corrisponde una precisa porzione dell’attuale metamorfosi del lavoro: la femminilizzazione. L’album di famiglia raccoglie soggettività e situazioni tra loro apparentemente disparate, come fa notare nell’introduzione quando nel quadro firmato «Come gli uomini, meglio degli uomini» rientrerebbero insieme «Margaret Thatcher, donna-non donna, completamente desessualizzata, e Ambra [Angiolini], pura femminilità, oggetto sessuale infantilizzato» (p. 15). La convivenza tra il femminismo liberal e il neoliberismo viene letta, in questa metamorfosi, come prodotto della «speranza cioè che essere necessari a questo sistema produttivo implicasse inevitabilmente un’acquisizione di diritti» (pp. 67-68). Nella forma della riproduzione della forza lavoro, nel lavoro stesso, nel consumo.

Seppure tentata dal definire questo processo nei termini operaisti del divenire-fabbrica della società, l’autrice ritrova piuttosto una «domesticazione della produzione» (p. 75), una delle cui concrezioni sarebbe l’«home office» che oggi, in piena pandemia, ritroviamo diffuso nella forma dello smart-working. Se dopo trent’anni di neoliberismo non fosse chiaro, l’attuale situazione ci mostra nella maniera più evidente come quella speranza alla base del femminismo liberal sia una forma di mistificazione della transizione post-fordista. Anziché migliorare le condizioni della «donna», non si fa che estendere, per tutt*, forme di «lavoro invisibile, non retribuito e privo di tutele ma necessario almeno quanto lo è sempre stato il lavoro riproduttivo delle donne» (p. 79). Eliminare dal proprio orizzonte d’analisi — operazione molto cara al liberalismo, carissima al neoliberismo — il riferimento ai rapporti sociali, a favore di un pensiero normativo delle e sulle relazioni sociali, ha prodotto un femminismo che «punta alla meritocrazia, non allemancipazione». E dove manca una critica materialista del presente, a guadagnarci è sempre la metafisica, che riafferma «il valore naturale, intrinseco ed essenziale della femminilità, fa il gioco del capitale», nascondendo dall’ordine del discorso «la violenza e il darwinismo sociale connaturati allidea di meritocrazia e competizione da cui è costituito il capitalismo» (p. 94). O meglio, sottolinea Cuter, se il darwinismo sociale è il grande assente, la violenza subisce una sublimazione ontologica, trasformando il femminismo da prassi di liberazione e trasformazione dell’esistente ad una riedizione del sempiterno manicheismo del pensiero automatico.

Entra a questo livello l’esigenza di una fenomenologia del femminismo liberal, le cui figure (la vittima, la puritana, la Madre) attentamente analizzate sono diverse espressioni dell’oggettivazione del femminile all’interno di un discorso pubblico che appare molto, troppo simile alla dialettica hegeliana Servo-Padrone. Con la sola differenza che, in questo caso, servo e padrone, soggetto e oggetto, vengono sostanzializzati e, dunque, non possono essere interscambiabili. Il Padrone resta Padrone, uguale a se stesso; il Servo, la serva, rimane tale, anch’essa uguale a se stessa. La campagna del #metoo, ad esempio, oltre ad aver messo al centro del discorso generale (e generalista) la quotidiana situazione di violenza vissuta dalle donne e dai soggetti non-eteronormati, ha finito con l’ipostatizzare la condizione di vittima. Che invece è il prodotto storicamente determinato di ben definiti rapporti di forza (sociali, economici, culturali). Innescando un processo di definizione della donna come vittima per natura: «[s]ei una vittima, ergo senza macchia e senza peccato» (p. 104). In altre parole, nel meccanismo foucaultiano della confessione, a emergere è anche un’incapacità di prendere le distanze dalla violenza subita, e forse, partendo dai media e dal loro interesse per la questione delle molestie, possiamo arrivare a capire quale sia l’investimento individuale in questo tipo di narrazione, a cominciare da quello delle vittime (pp. 108-109).

Appare con questo volto l’ideologia, del tutto funzionale allo status quo e allo stato di cose presente, che è il risultato di una precisa volontà di disgiungere la violenza di genere da quella, più generale, che ognun* vive nelle relazioni e nei rapporti sociali. Si è venuto così configurando un femminismo che si preclude il nesso logico — oltre che programmatico — tra lotta al patriarcato e lotta al capitalismo. E che così esclude dal suo campo visivo la possibilità, da un lato, di un’indagine sull’intersezionalità della violenza e, dall’altro, la costruzione di convergenze tra le lotte. Tra le pieghe di questo discorso, emerge «il primato eticista puritano», che al posto di «incoraggiare l’occupazione femminile, di fare educazione sessuale nelle scuole, di finanziare i centri antiviolenza, di garantire aborto e contraccezione gratuiti, di stabilire il diritto al congedo di paternità […] lascia la questione alla condotta individuale» (p. 122). Quando un problema che si manifesta a livello delle relazioni e dei rapporti sociali viene escluso dal pubblico e rigettato nel privato, ad intervenire è la norma nella sua forma più antica, e il pensiero automatico svela il suo volto teologico. Se la violenza di genere è solo frutto della malvagità dell’uomo perché uomo, e la donna è una vittima naturale, la sola risposta possibile rimane la morale. Che si declina, come sempre, nel senso di colpa e nel vittimismo: «le donne se la prendono con loro stesse anche quando cercano di fare azione politica, gli uomini invece sempre con la donna, sentendosi depositari di un qualche diritto di cui sono stati ingiustamente privati» (p. 137). Privatizzazione della violenza = legittimazione della violenza. Questo succede quando si vuole «riportare tutto al soggetto, alla sua esperienza personale e alla sua responsabilità morale», e cioè il generare «un senso di profonda impotenza di fronte al sistema, che è il corollario dellassenza di un orizzonte collettivo e della sensazione di solitudine che si vede nelleccesso di soggettivazione identitaria» (p. 138).

L’individualizzazione della violenza di genere è dunque una vacanza del potere, «un abdicare al ruolo del potere, che qui non va inteso come potere coercitivo ma come potere in senso positivo, di potenza, di percezione di poter fare qualcosa, di agency insomma» (p. 147). Cuter individua il prete par excellence della vacanza del potere nella Madre, sacerdotessa del «Fare la Cosa Giusta», il cui soft power è più che «coerente con la definizione di biopolitica» (p. 150), che viene qui declinato come normazione dei rapporti sessuali, delle «Buone Maniere» e dell’educazione alla socialità. A differenza del potere paterno, «decisione e coercitivo», quello materno «rende la ribellione praticamente impossibile e porta esattamente a[l] ripiegamento su se stessi» (pp. 151-152).

La vacanza del potere produce allora un senso di impotenza e di isolamento insopportabili, soprattutto se calati nel nostro presente, in cui la parcellizzazione e la frammentazione sociali sono il calco della moltiplicazione delle forme della lotta del capitale nell’esercizio del suo sfruttamento della forza lavoro. La violenza simbolica (senso di colpa, vergogna e vittimizzazione) che vi si aggiunge rende la vita invivibile. La risposta, entro questo ordine del discorso, è ancora un’altra forma più interiorizzata di soft power di quello materno, nella declinazione dell’«orgoglio del sacrificio» emblematicamente racchiuso nell’ingiunzione dell’immaginario identitario del femminismo liberal: «ama te stesso, you are beautiful, you is valid, perché io valgo» (p. 180). Subentra qui un’altra figura del prete, la sinistra e la sua «retorica della responsabilità, della tutela, della cura», legata a «un desiderio fascista di ordine e disciplina, un qualcosa di militaresco, legato alla fascinazione per i «poteri forti»». Lo stiamo vedendo in questi giorni, in cui il governo italiano sta procedendo più da Madre che da padre padrone, tagliando fuori dalle misure di contenimento del contagio tutto ciò che riguarda la produzione — o che ne è funzionale, come suggerisce Gualtieri nel giustificare l’apertura a tutti i costi delle scuole con una beffarda liberazione delle donne dal lavoro di cura — e colpevolizzando tutto ciò che riguarda la socialità. Cuter lo riassume in maniera netta, tagliente: nella crisi globale della cura, in cui il welfare collassa e sempre meno persone possono permettersi di ridurre i ritmi di lavoro per supplirvi, la proposta della sinistra è quella di inorgoglirsi del ruolo di madri capaci di assumersene tutto il peso (p. 154).

Un femminismo materialista per una liberazione desiderante

Oltre l’essenzialismo, oltre l’ontologizzazione e la naturalizzazione della condizione patriarcale, oltre la morale e la norma, oltre i preti del Fare la Cosa Giusta. Al di là del bene e del male. Il salto sta nello «sganciare il concetto di cura da quello di femminile nel senso tradizionale e quindi deteriore, occorre eliminare il discorso della responsabilità e portare al centro quello di desiderio. Evitare l’orgoglio identitario, rifiutare il sacrificio, rifiutare il lavoro, sia produttivo che riproduttivo, rifiutare il ricatto e la responsabilità a doverlo svolgere, vuol dire riaffermare la cura come desiderio» (p. 191). Una pratica, una postura, un’etica che vogliono essere prassi, pensiero e azione, e che trovano nel materialismo il loro dispositivo teoretico-pratico per eccellenza: storicizzare la discriminazione di genere e porre il desiderio avanti alla cura di sé e degli altri. La sinistra è qualcosa di simile ai codici postali, scherzava Deleuze. Cuter lo ha preso sul serio. Non si tratta cioè di pensare alle forme di riappropriazione del corpo, di sua «accessibilità» (nella versione neoliberista) o di sua «proprietà» (nella versione più classica e lockiana del liberalismo); l’autrice vorrebbe che «si invocasse piuttosto un loro «esproprio proletario» [perché un] corpo senza desiderio è una prigione» (p. 174). Un materialismo erotico, dunque, che è anche un progetto etico-politico, fondato non sui termini, non sui soggetti, ma sulla «struttura del desiderio, che informa con la sua violenza la storia dellumanità, proprio come il conflitto di classe» (p. 177). Via l’etica della responsabilità, via il sacrificio, via l’obbligo morale. Alla trascendenza della norma e dei ruoli, Cuter oppone un’immanenza dei termini alle relazioni. Il femminismo materialista è uno xenofemminismo, e si fonda su un privilegio epistemico, quello dei subalterni che non cedono ai profumi dell’oppio religioso, qualunque sia il pusher. Nel caso specifico dell’autrice, questo sapere si declina in questi termini: «Se la scelta è tra maternità e isteria, preferisco ancora l’isteria, preferisco essere troia, preferisco la rabbia come motore sociale, preferisco la fica, il taglio, all’utero accogliente. Preferisco il desiderio» (p. 163). All’eticizzazione della politica, il pensiero materialista risponde con la politicizzazione dell’etica.

Questo femminismo lancia una sfida (epistemologica, politica ed etica, teoretica e pratica) per un’altro modo di percepirsi, di porsi nel e di sviluppare il dibattito, di agire. Un antidoto materialista alla triade neoliberista del merito, dell’accettazione e del sacrificio, perché si pone nella stessa postura di Marx e di Engels, e se lo rivendica, che, lontani dal partire da una morale o dalla trascendenza della norma nella forma dell’ingiunzione, «hanno solo fatto notare di non avere niente da perdere» (p. 199). Non abbiamo nulla da perdere, un mondo intero da desiderare.

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Assemblea con il Collettivo Cosmos e la Rete dei Collettivi

Qualche giorno fà eravamo in assemblea con il @collettivo cosmos e la rete dei collettivi per parlare di Sessismo nella scuola e nella società.

 

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Perché non parliamo di femminismo africano?

Foto: Unsplash/ Eye for Ebony

Natasha Aidoo parte dai testi delle femministe africane per spiegare perché teorie e movimenti hanno bisogno di uno sguardo intersezionale, oggi ancora di più

Quando si parla di femminismo si tende a considerare quello americano ed europeo. Nel caso di femminismo nero, il primo pensiero è a quello afroamericano. Ma quello africano, del continente e del resto della diaspora, perché rimane perlopiù inesplorato? Emergono la mancanza di conoscenza e, di conseguenza, del dovuto riconoscimento delle teorie, interpretazioni e modalità di espressione specifiche caratterizzate da una continua evoluzione, quella necessaria per affrontare sfide diverse: il colonialismo, la conquista dell’indipendenza nazionale e il contesto capitalistico globale.

Se parto dalla mia prospettiva, in quanto giovane studiosa afro-europea, italiana di origini ghanesi, il mio distacco geopolitico dall’Africa si affianca a un radicamento culturale di duplice natura e a una visione afrocentrica. 

Femminismo africano può essere inteso come concetto ancorato strettamente al contesto geografico o alla condivisione di un’ideologia comune, che sottolinea l’esperienza femminile nera. Tuttavia, non credo sia il caso di preferire un’opzione rispetto all’altra, ma di conciliarle. Il punto di partenza è rappresentato dalla “matrice di dominazione” che accomuna l’esistenza femminile, ma che assume forme diverse per le donne nere.

L’importanza del contesto entra in gioco e richiede l’utilizzo di chiavi di lettura, analisi e decostruzione specifiche. Per questa ragione, i concetti di eterogeneità e decolonizzazione del sapere risultano centrali. Da un lato, non si può intendere l’esperienza delle donne nere come monolitica e riconducibile a una categoria valida per tutte, ma è necessario considerarne la particolarità, fluidità e unicità. Dall’altro, le femministe africane si rendono conto che per uscire dalla categorizzazione limitante ed eurocentrica è fondamentale un processo di critica, ridefinizione e autorappresentazione. 

Attraverso l’accesso alla produzione di conoscenza e perciò al potere, sono in grado di distanziarsi dal paradigma imposto, di essere a capo dei dibattiti emergenti e di contribuire attivamente alla scrittura di una letteratura che riflette il graduale superamento del colonialismo. Non solo politico, ma anche intellettuale. Questa emancipazione sotto forma di femminismo postcoloniale, determinata dall’opposizione alla presunta superiorità scientifica occidentale applicata anche al campo della teoria femminista, si concretizza nella diversità e ricchezza del dibattito africano, che si fonda su un approccio afrocentrico.

La Nigeria si contraddistingue per l’elaborazione di prospettive alternative. Womanism, di Chikwenye O. Ogunyemi e Mary M. Kowalowe, si basa sul confronto tra donne nere e cultura, colonialismo e altre forme di dominazione. Stiwanism, di Molara Ogundipe-Leslie e acronimo di Social Transformations Including Women, viene definito “femminismo in un contesto africano”. Motherism, di Catherine O. Acholonu, identifica nelle donne rurali il compito di nutrire la società. Femalism, di Chioma Opara, incentra il discorso femminista sul concetto di trascendenza e sul corpo della donna. Nego-feminism, di Obioma Nnaemeka, si riferisce alla negoziazione e Snail-sense feminism, di Akachi Ezeigbo, prende spunto dalla cultura indigena nazionale. Queste ultime sono specifiche al contesto nigeriano ed esaltano “inclusione di genere, complementarità e collaborazione”.

Ci sono le analisi di carattere globale, ma ancorate al territorio africano di femministe della diaspora come Ifi Amadiume e Marjorie Mblinyi. Amina Mama, una delle principali voci del femminismo africano – a capo del corso di studi di genere e direttrice dell’African Gender Institute presso l’Università di Cape Town, Sudafrica – spiega il significato del concetto: “segnala il rifiuto dell’oppressione, e un impegno a lottare per la liberazione delle donne da ogni forma di oppressione – interna, esterna, psicologica ed emotiva, socio-economica, politica e filosofica”. Patricia McFadden, sociologa e scrittrice femminista radicale, sottolinea l’aspetto essenziale del discorso intellettuale nella pratica di resistenza femminista, del genere come “strumento femminista di pensiero”, della necessità di adattare le strategie di mobilitazione e del peso della contemporaneità.

Ama Ata Aidoo, scrittrice ghanese, dimostra come sia possibile utilizzare la narrativa per esporre posizioni panafricane e femministe: attraverso la creazione di narrazioni incentrate sulla donna, transnazionali e transtemporali. Affermando che “… ancora più importante è come [le donne] dicono la loro verità” Nnaemeka esprime la rilevanza delle modalità di espressione femminile, che si caratterizzano per la molteplicità e la capacità di allargare il campo della teoria femminista, attraverso l’uso di spazi alternativi: come la scrittura creativa. Si ritiene, infatti, che la contrapposizione tra luoghi canonici di teorizzazione e la pratica femminista non abbia più validità. Per questa ragione, la legittimità di “spazi dalle molteplici consistenze”, come i media creativi, rappresenta un ulteriore raggiungimento nell’autodeterminazione postcoloniale.

Carole B. Davies dichiara che gli scritti di donne nere oltrepassano le barriereA questo discorso si connette l’urgenza di rivalutare e rivisitare il legame tra teoria e pratica. Intese come dimensioni connesse e complementari, questo permette di esaltare la funzione delle esperienze quotidiane, dell’attivismo e dello sforzo politico. L’esperienza personale risulta significativa, dato che muoversi nella realtà patriarcale richiede livelli diversi di strategie per la sopravvivenza, coscienza politica e consapevolezza delle problematiche affrontate. 

L’esperienza della donna nera (africana) è particolare per l’intreccio di tre primarie forme di oppressione: di razza, di classe e di genere. L’elemento della razza non deve essere trascurato né sottovalutato per una corretta analisi. Questa simultaneità e intersezione ha portato alla creazione del concetto di intersezionalità da parte di Kimberlé Crenshaw, la presa di coscienza della necessità di una chiave interpretativa e di indagine, che permettesse di riunire in un’unica lente l’interdipendenza e la sovrapposizione tra diverse categorie del potere.

Con lo sguardo verso il presente e il futuro, la mia attenzione è rivolta a come le donne stiano agendo e reagendo alle sfide causate dal colonialismo, dalle politiche locali e nazionali al contesto socioeconomico a livello microscopico e macroscopico, alla salvaguardia ambientale. In che modo stiano procedendo verso una visibilità concreta e fondata sul riconoscimento, sulla rappresentazione di sé e sulla partecipazione attiva ai processi decisionali.

La condizione di vulnerabilità, con cui troppo spesso si caratterizzano le donne del sud globale, deve essere decostruita, revisionata e integrata da una visione più accurata, specifica e critica. Che rifletta la complessità dell’esistenza umana, delle modalità di resistenza individuale e collettiva, che metta in luce il lavoro delle femministe del continente e della diaspora. Come enfatizza Aida Hurtado: “è solo attraverso l’integrazione della teoria femminista di una critica delle diverse forme di oppressione sperimentate dalle donne che un movimento politico delle donne può crescere, fiorire e durare”.

Riferimenti

Acholonu, Catherine Obianuju (1995)  Motherism: The Afrocentric Alternative  to  Feminism. Owerri, Afa Publications.

Carby  Hazel  V.  (1982)  ‘White  woman  Listen!  Black  Feminism  and  the  Boundaries  of  Sisterhood‘,  Centre  for Contemporary  Cultural  Studies  ed.,  The  Empire  Strikes  Back:  Race  and  Racism  in  70s  Britain,  London: Hutchinson  and  Co,  pp.  110-128.

Ezeigbo Akachi (2012)  Snail-sense Feminism: Building on  an Indigenous  Model, Lagos: University  of  Lagos.

Gqola  Pumla  Dineo  (2001)  Ufanele  Uqavile:  Blackwomen,  Feminisms  and  Postcoloniality  in  Africa,  Agenda: Empowering  Women  for  Gender  Equity,  No.  50,  African  Feminisms  One,  Taylor  &  Francis,  Ltd.  on  behalf  of Agenda  Feminist  Media, pp.11-22.

Guy-Sheftall  Beverly  (2003)  African  Feminist  Discourse:  A  Review  Essay,  Agenda:  Empowering  Women  for Gender  Equity,  No.  58,  African  Feminisms  Three,  Taylor  &  Francis,  Ltd.  on  behalf  of  Agenda  Feminist  Media,  pp. 31-36. 

Kolawole Mary  Modupe (1997)  Womanism  and African Consciousness, Eritrea: Africa World Press.

Lewis Desiree  (2001)  African  feminisms,  Agenda,  16:50,  p. 4-10.

McFadden  Patricia  (2002)  Intellectual  Politics  and  Radical  Feminist  Praxis,  Feminist  Africa,  No.  1,  pp.  1-4. 

McFadden  Patricia  (November  2016)  Becoming  Contemporary  African  Feminists:  Her-stories,  legacies  and  the new  imperatives,  Feminist  Dialogue  Series,  pp.  1-7. 

McFadden  Patricia  (2018)  Feminism  in  the  African  Contemporary  Moment:  Social  and  Political  Imperatives, Principia  College,  pp.  1-6. 

Mohanty  Chandra  Talpade  (1988)  ‘Under  Western  Eyes:  Feminist  Scholarship  and  Colonial  Discourses’,  in Feminist  Review,  no.  30,  pp. 65-88.

Opara Chioma   (2005)  On the  African  Concept of  Transcendence: Conflating  Nature, Nurture and Creativity.  International Journal of Philosophy  and  Religion 21(2), pp. 189-200.

Tagliacozzo  Sara  (Mag-Ago  2007)  Movimenti  di  pensiero.  Biografie  femministe  africane  tra  diaspora  e afrocentrismo,  Zapruder,  n.  13,  Bologna. 

Tamale Sylvia  (2006)  African  Feminism:  How  should  we  change?,  Development,  49(1),  pp.  38–41.

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Noi stiamo con Samantha, sit – in Summer Suite

Siamo andate alle porte del Summer Suite, locale dove qualche giorno fa una ragazza ha denunciato l’aggressione da parte di un noto calciatore, il quale è poi stato scortato e protetto dalla sicurezza interna nell’indifferenza generale verso quanto accaduto alla ragazza.

Spinta dalla nostra contestazione la dirigenza del locale ha letto un comunicato dal palco, per noi irricevibile, nel quale si affermava di attendere i dettagli dalla magistratura. Nessuna scusa verso Samantha, nessuna consapevolezza delle gravi carenze nella gestione di un caso di violenza maschile contro una donna.

Lo ribadiamo forte e chiaro: stiamo dalla parte di Samantha, senza se e senza ma. L’unica parola che vale è quella delle donne che denunciano la violenza. La violenza non è generica e neutra ma è una violenza maschile, sistemica, che si esprime in molte forme, come anche quella avvenuta nel locale con la complicità e l’omertà dei gestori stessi.

Pretendiamo che i locali provvedano a una formazione specifica a personale e dirigenza per la gestione di situazioni di violenza di genere che avvengono all’interno, e che in tutto il locale siano affissi manifesti, flyer, vademecum, che chiariscono cosa sia il consenso, che no vuol dire no, e che la violenza di genere non è tollerata in tutte le sue forme.

Siamo ancora furiose, e stiamo con Samantha. Non saranno una manciata di parole pretestuose e vuote a placarci.

Contro la violenza di genere nessun passo indietro

 

 

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L’Assemblea di Non una di Meno Firenze esprime vicinanza e solidarietà a Samantha

 

L’Assemblea di Non una di Meno Firenze esprime vicinanza e solidarietà a Samantha vittima di una feroce aggressione da parte del calciatore Abdou Diakhate in un locale di Firenze.
Samantha ha denunciato l’aggressione in un video pubblicato su Facebook, mettendosi davanti alla telecamera, in primo piano con la faccia ancora gonfia e un dente spezzato. Parla a fatica: “Mi chiamo Samantha Luisa Duarte – dice – Ho vent’anni sono di Firenze e giovedì sera alla Summer Suite (un locale vicino all’ippodromo, nel parco delle Cascine) sono stata aggredita da un noto calciatore”.
Samantha è stata lasciata sola per terra in una pozza di sangue mentre il.personale della discoteca pensava a mettere in sicurezza l’aggressore.
ORA BASTA! Conosciamo bene queste dinamiche machiste e violente, in cui la vittima di un’aggressione diventa la colpevole. Ci stringiamo a Samantha, e a tutte coloro che vivono esperienze di violenza maschile.
Se questa è la giustizia patriarcale, la nostra sarà giustizia femminista. Diventeremo il vostro incubo
Se toccano una toccano tutte

Rispondiamo alla direzione artistica che ci ha contattato nella nostra Pagina per dare le proprie spiegazioni sulla vicenda accaduta qualche sera fa presso il Summer Suite, noi oltre che rispondere privatamente abbiamo deciso di pubblicare la risposta che determina il nostro punto di vista e spiega perché scegliamo di protestare verso il locale.
Gentile Sig….., grazie per averci scritto e certamente le rispondiamo per chiarire che a noi interessa la violenza di genere, quella cioè dell’uomo sulla donna, il caso che porta ad esempio non è pertinente perché non siamo un Collettivo antiviolenza ma un Collettivo antisessista e quanto accaduto nel suo locale è un avvenimento di chiara matrice sessista.
Agiamo contro il locale perché non vi siete mostrati in grado di intervenire in una dinamica chiaramente di violenza di genere, non avendo tutelato in maniera adeguata la donna che ha subito questa terribile violenza e tentando anzi immediatamente dopo di giustificarvi declassando il fatto a “lite di coppia” come se tanto bastasse ad agire violenza indisturbati.
Lei precisa di non essere stato nel locale durante l’accaduto, ma le ricordiamo che comunque la Direzione dovrebbe avere la responsabilità della formazione del suo personale, che secondo le testimonianze non ha portato soccorso alla ragazza alla quale sono stati refertati 30 giorni di prognosi (per il momento), ma il personale del locale ha addirittura scortato l’aggressore all’auto.
Cogliamo l’occasione per invitare la direzione e la proprietà del locale a porre attenzione ed attuare una adeguata formazione del personale di sorveglianza e sicurezza sulla violenza di genere.
Chiediamo inoltre ai responsabili del locale di apporre avvisi con norme di comportamento e azioni da prendere in caso di violazione delle stesse.
Sottolineamo che noi crediamo a ciò che ha dichiarato la donna vittima di violenza e che ciò non vuol dire ignorare l’aggressione ma, anzi, non ignorare i complici.
La ringraziamo per il suo impegno antisessista e per averci spiegato così bene quanto la violenza sia sempre nociva ma purtroppo questa consapevolezza non basta ad agire in modo corretto quando succedono fatti così gravi, la prossima volta dovesse accadere ricordatevi di schierarvi senza se e senza ma dalla parte della vittima
Non una di meno Firenze Mostra meno

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COSA BOLLE IN PENTOLA? LA SOLIDARIETÀ’ TRANSFEMMINISTA! Storia di Pop Wok – mensa popolare femminista

COSA BOLLE IN PENTOLA? LA SOLIDARIETÀ’ TRANSFEMMINISTA!
Storia di Pop Wok – mensa popolare femminista

Quella di Pop Wok è una storia che siamo felici di poter raccontare. Come le storie migliori è nata per caso, a partire dal desiderio di alcune, le reti di altre, i bisogni di altre ancora.
Sono questi gli ingredienti che bollono in pentola: le relazioni, il desiderio, le reti politiche e affettive, la solidarietà femminista.
Eravamo nel pieno del lockdown quando il sogno di una mensa femminista da qualche tempo maturato da alcune compagne ha incontrato le operatrici della CAT – cooperativa sociale e dell’unità di strada Viavian Love. Sono state loro a riportarci un bisogno espresso da numerose donne trans, migranti (prevalentemente da Perù e Sud America) e sex workers conosciute con l’unità di strada. Nella situazione di pandemia globale non gli era possibile lavorare e così avevano bisogno urgente di cibo. Da qui l’idea: una volta a settimana, il lunedì, distribuire pacchi alimentari e un pasto caldo, in modo da unire il momento mutualistico a un momento di incontro e conoscenza reciproca, attraverso la condivisione del pasto.


Eravamo sicure di non riconoscerci in una forma di solidarietà caritatevole o assistenzialista. Piuttosto, ci affascinava l’idea di aprire uno spazio, nel quale da parte nostra mettere alcuni elementi – come il cibo – rimanendo in ascolto degli elementi che le altre donne avrebbero scelto di mettere.
Ci siamo subito trovate a fare rete: con la CAT, Zenzero biocatering, il circolo ARCI dei lavoratori di Porta al Prato, Corrente Alternata, Resistenze Fiorentine, Antidoto sonoro. Senza questa rete di esperienze, competenze, risorse materiali e desideri politici nulla sarebbe potuto nascere. Insieme abbiamo unito il tempo e le forze per progettare la mensa.
La prima spesa all’ingrosso, il primo pomeriggio a cucinare, i primi pacchi. Sperimentare nuove forme di agire politico e pensarci insieme.
Così ci siamo ritrovate alla prima distribuzione. A condividere i primi sguardi, i pacchi alimentari e gli scambi di battute. In spagnolo, in italiano, in qualunque lingua ci aiutasse a comunicare. Non è stato facile iniziare a farlo durante la pandemia, con la paura del contagio, il bisogno di tutelare tutte, la polizia pronta a multare e sanzionare. Abbiamo provato a farlo guardandoci oltre il bordo della mascherina.
Abbiamo capito subito che la questione del sex work, considerato un nodo dai movimenti femministi, la stavamo affrontando nell’unico modo che conosciamo: attraverso la relazione. Così il nostro agire politico è stato a sua volta un posizionamento. Scegliere di stare dalla parte di chi parla per sé, con la propria voce. Camminare accanto.


Non è stato scontato incontrarsi e trovare il modo di capirsi. Non lo è stato per le donne che usufruivano del pasto, che facevano fatica a capire chi fossimo, e perchè ci interessasse conoscerle – un’esperienza così diversa rispetto alle persone bianche e locali che sono abituate ad incontrare. E non è stato scontato per noi, come compagne femministe, imparare nuovi linguaggi per interagire. Il cibo, prima di tutto. Veicolo di cura e di scambio, occasione per sedere insieme intorno a una tavola immaginaria. E poi semplificare le parole, trovarne di nuove. Imparare a stare in silenzio, quando le altre parlano. Stare in ascolto, senza dover per forza dire niente. Il percorso è stato uno danza reciproca in cui conoscersi attraverso piccoli gesti: quali gusti, quali cibi preferiti, che quantità, quali passioni, quali tempi.
Diverse fotografe e giornaliste hanno seguito il progetto attraverso un lavoro di documentazione, facendo già memoria su quest’esperienza.
Col tempo il lockdown è finito e così il bisogno impellente di cibo: tante hanno ricominciato a lavorare. Eppure ci sembrava che il progetto non fosse esaurito: così abbiamo provato a trovare altre forme. Alle ragazze piace la pallavolo, e il primo lunedì utile abbiamo montato una rete e iniziato a giocare con squadre miste. Non tutte, delle 70 donne con cui abbiamo iniziato il percorso, sono rimaste. Per il lavoro, la mancanza di tempo, o il disinteresse, sono rimaste solo alcune – rimaste però chiaramente per la voglia di stare in relazione. Anche senza capire fino in fondo la ragione della nostra presenza, per tornare in quel “cerchio”, che timidamente ogni lunedì ha iniziato a formarsi. Sedute sull’erba, donne dalle storie diverse, dalla diversa provenienza, lavoro, esperienza, età, vissuto di genere. Sederci ad ascoltare i loro racconti, le parole con cui costruiscono il senso di se stesse, del lavoro, della quotidianità, del futuro.
Non abbiamo ancora trovato tutte le parole per raccontare fino in fondo questo percorso. Di sicuro però abbiamo maturato alcune certezze. La prima è che la verità sul sex work non esiste, ma esistono le vite incarnate delle persone, e la loro parola su di sé. La prima e l’ultima. Abbiamo capito poi che le dicotomie, il bianco o nero, non esistono mai e tantomeno sul lavoro sessuale. Ognuna/* ha la sua storia, legata a doppio filo al proprio posizionamento, alle diverse oppressioni e privilegi. Non esistono solo schiave o solo eroine liberate, ma le enormi sfumature che nascono dall’esperienza.
E poi siamo certe della nostra posizione: in ascolto, con una ciotola di riso in mano, pronte ad accogliere le storie di chi si siede nel cerchio.
Ci prendiamo una pausa estiva, per godere di un ritmo più lento e raccogliere i tanti pensieri, racconti, condivisioni. Ne facciamo uno zaino da rimettere sulle spalle a settembre, per riprendere con più voglia di prima, e ridisegnare i bordi di questo progetto: sempre più ampio, sempre più consapevole, sempre più condiviso. Ci rimane la voglia di un ipotetico spazio “più sicuro” che dal cibo articoli anche un luogo fisico nel quale poterci incontrare e passare il tempo insieme.
Liberazione e autodeterminazione ci sembrano parole sempre più dense. Come assemblea non abbiamo ancora fatto sedimentare del tutto il senso. Ma di sicuro, abbiamo lasciato che le relazioni con le donne ci spostassero. Ci sarà tempo per capire dove e in che forma. Per il momento godiamo della confusione e della sazietà che gli incontri reali generano. E di questo cerchio sempre più grande, nel quale sempre più numerose possiamo sederci una di fianco all’altra.

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Verità per Martina Rossi

Vogliamo la verità per Martina Rossi????
Siamo qui per rivendicare giustizia e libertà per Martina e per tutte le donne vittime della violenza istituzionale

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Presidio al Tribunale di Firenze

Alcuni momenti del #presidio di stamattina davanti il #tribunale di #Firenze che ha assolto gli imputati nel processo per la morte di Martina Rossi

Contro la #violenzaistituzionale
Verità e giustizia per #MartinaRossi

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LO STUPRO NON SI ASSOLVE! 

Vi invitiamo domani alle 11:00 al Palazzo di giustizia per la conferenza stampa: LO STUPRO NON SI ASSOLVE!

COMUNICATO STAMPA

Basta violenza dei tribunali!

Giustizia per Martina

 

La Corte di Appello ha assolto qualche settimana fa a Firenze tutti gli imputati del processo sulla morte di Martina Rossi, accusati di tentato stupro – ragione che avrebbe spinto Martina a fuggire cadendo dal balcone di un hotel a Palma di Maiorca il 3 agosto 2011. Dalle circostanze per la morte di Martina scompare dunque l’aggressione sessuale come causa scatenante, nonostante le precedenti sentenze.

Ancora una volta nei tribunali viene reiterato il meccanismo che attenua, invisibilizza o misconosce la violenza maschile contro le donne. In questo modo i tribunali riproducono la spirale della violenza. Le donne “non dicono no abbastanza forte, portano gonne troppo corte, sono isteriche o esagerate” oppure sono considerate nelle perizie dei tribunali matte e incapaci di occuparsi dei figli/e”, che vengono così tolti alle madri per darli in affidamento a case famiglie o a padri maltrattanti.

Non ci stancheremo mai di denunciare le istituzioni la cui funzione è la tutela di una giustizia reale e sociale, e non certo patriarcale. Il sessismo tuttora permea le strutture e le istituzioni che ci circondano, togliendo alle donne la legittimità di denunciare una violenza.

Vogliamo vivere libere dalla violenza, vogliamo poter denunciare ed essere ascoltate e credute. Non chiediamo di essere protette, chiediamo giustizia.

Il lockdown e la fase di pandemia globale hanno evidenziato quanto sia ancora capillare la violenza domestica, ma anche le disparità di genere nel mondo del lavoro, nella cura dei figli/e e della famiglia, nell’accesso al reddito: il 26 giugno, in tutta Italia, Nonunadimeno torna nelle strade a gridare ancora una volta che sui nostri corpi non passeranno!

 

Per Martina, per tutte quelle che non sono sopravvissute e per tutte noi che r-esistiamo

 

LO STUPRO NON SI ASSOLVE!

 

Venerdì 26 giugno conferenza stampa e presidio davanti al tribunale di Firenze alle 11:00 viale A. Guidoni 61

 

Non una di meno Firenze

FB: NonUnaDiMenoFirenze
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Sessismo in spazi militanti: lo stupro rimosso!

Dal blog di Abbatto i muri

* attenzione questo testo parla di stupro e violenza psicologica

Lei scrive:

 

Ho iniziato a scrivere questo testo diversi mesi dopo aver lasciato Oulx in un contesto di cura. Ho scelto di rispondere a ciò che è successo attraverso la scrittura e la trasmissione, ma nella vita reale questa non è la mia arma. Se sono arrivata a questo punto è perché è una delle mie ultime opzioni per reagire a quello che è successo lì, e mi sono resa conto che potevo contare solo su me stessa per calmare la mia rabbia. Fino ad allora non avevo mai trovato il tempo per liberarmi di tutto ciò che era accaduto laggiù. Ho scritto, riletto, cambiato, ricominciato da capo. Gli ultimi quattro mesi che ho vissuto lì sono stati molto densi di eventi e di emozioni. Ho trascritto come potevo cio che era essenziale ai miei occhi. In questo testo faccio delle scorciatoie, probabilmente troppo binarie su gruppi di persone: “loro”/”noi”, e mi sembra ovvio che non posso essere obiettiva. Ma qui, vi avverto, ho fatto quello che potevo affinché non sia solo la rabbia ad animare questo testo. Sono disponibile a chiarire le cose, rispondere alle domande, insomma, avere degli scambi intorno a questo testo mi va bene.

MORTE AL POTERE

Si tratta di una lettera aperta sulle violenze di genere e le prese di potere che hanno avuto luogo a Oulx, un occupazione sul confine italo-francese tra settembre e novembre 2019.
Questa lettera vuole rendere visibile ciò che vi è accaduto perché è ancora troppo comune nei nostri ambienti. Ma anche chiaramente per bruciare le persone nel nostro piccolo mondo di militanti dove la reputazione può essere così importante.

Questo testo mira a varie persone di un gruppo di gente molto implicate alla frontiera da 2-3 anni.
Voglio bruciarli nelle nostre reti, perché le loro posizioni e i loro comportamenti sono stati iper pericolosi per la mia salute mentale. E certamente non solo per la mia… Non voglio parlare al posto di altre persone, ma dopo questo evento, siamo stati una dozzina di persone che hanno vissuto o sono state coinvolte in Oulx per diversi mesi per andarsene definitivamente.

Ma se tutto questo è potuto accadere è anche a causa di molte persone che hanno sostenuto o appoggiato le posizioni dei loro amici. Erano già diverse settimane che la gente aveva cercato di mettere in guardia dall’atmosfera mega sessista del luogo e che, sotto la copertura dell’efficienza e dell’urgenza, non c’è stato il tempo di parlarne… Nell’estate del 2019, ho vissuto a Oulx per diversi mesi. Ci vivo ogni giorno, è la mia base principale, il luogo in cui mi impegno e anche la mia casa. Non sono l’unica, ci sono molte persone che vivono lì e considerano questo posto come una casa. È anche uno spazio pieno di persone: persone che sono venute ad attraversare il confine, che sono qui da una settimana e persone che sono state coinvolte al confine per diversi anni e che passano regolarmente.

A settembre, con le persone che vivono in casa, dopo un incontro di troppo dove ci sentiamo infantilizzate e/o dominate da persone che sono lì da molto tempo siamo stufe. Proponiamo quindi alle persone presenti a questo incontro di creare discussioni intorno alle dinamiche di potere perché troviamo che occupano troppo spazio. Ci sentiamo disprezzate in relazione a ciò che facciamo qui (gestire la vita quotidiana, preparare il cibo, entrare in contatto con le persone…). Ci sembra di non fare abbastanza “politica”. Insomma, siamo stufe, vogliamo parlarne, che esista e che si possa andare avanti insieme su come ognuno ha potere sulle persone. Siamo maldestre nella nostra proposta, le persone interessate non vogliono affatto mettersi in discussione.

Da quel momento in poi, è la guerra fredda, la gente è molto turbata dalle critiche che facciamo: “Sono anti-autoritario, l’autoritarismo è il peggior insulto che possa ricevere, bla, bla, bla, bla, bla…”… Non ci arrendiamo e finisco per essere in conflitto personale con diverse persone. Con il passare del tempo, i nostri rapporti si fanno più tesi con le discussioni che abbiamo avviato. Le “discussioni” sulle prese di potere sono discussioni di 10 ore in cui ci si trova solo tra i bianchi. Ognuno diffonde la sua visione di come dovrebbe essere la lotta al confine, è una merda, non si parla di potere e tutti gli amici non bianchi che ci vivono non si sentono di partecipare. Arrivo a un punto in cui mi dico che in realtà non ho voglia di fare parte dell’immaginario “grande collettivo” di Oulx. Sono qui semplicemente perché per me ha senso vivere qui e amo le persone con cui vivo e quello che succede qui. La grande lotta per “distruggere” il confine tra le piccole ragazze bianche politicizzate non mi parla.

Allo stesso tempo, parlo con alcuni amici di uno stupro che ho subito due mesi prima. La persona che mi ha violentata è un amico intimo, vive con noi, passa molto tempo con me. Spiego loro che il mio cervello si è appena reso conto che con lui è successo qualcosa di schifoso, dico loro che una mattina di agosto mi sono svegliata nuda nel suo letto dopo una serata in cui ero ubriaca fradicia. Non ho memoria di quello che è successo. Ho negato per due mesi per proteggere il mio rapporto con questa persona che era molto importante per me, ho seppellito quella mattina hardcore lontano nella mia testa. Dico ai ragazzi che la negazione ha funzionato per un po’, ma ora me la prendo in faccia e ho bisogno di aiuto. E in più che avevo già cercato di parlare con l’aggressore e lui mi aveva assicurato di non sapere cosa fosse successo, che anche lui era ubriaco e che non ricordava. So che mi sta mentendo, mi ha confessato poco prima di quella volta che ha avuto dei sentimenti per me a partire da quella notte, mi fa impazzire, ho bisogno di far esistere “quella notte” e che ci sia un processo di riparazione.

Le mie richieste sono:
– che degli amici vadano a parlarci, così che possa raccontare quello che è successo e che io lo sappia e che lui possa capire che ha fatto della merda.
– che lui se ne vada via per qualche settimana per darmi un po’ d’aria, in modo che io possa incassare il colpo e rimanere a Oulx.
– Che le persone a lui vicine mantengano il legame una volta che se ne è andato per aiutarlo ad andare avanti sul suo concetto di consenso, che faccia meno stronzate e anche che non si trovi isolato da un giorno all’altro.
– Che il processo sia fatto solo con persone di cui mi fido.

Un gruppo di amiche lo va a prendere il giorno dopo, lui finisce per dire che siamo “andati a letto insieme”, che è stato un errore perché eravamo ubriachi, ma che è colpa nostra. Dice che se non mi sento bene in sua presenza, può andarsene.
Le amiche mi fanno un resoconto, sono in crisi. Mi riconosco quando sono ubriaca, a fine serata è difficile stare in piedi. Il fatto che abbia immaginato che “andiamo a letto insieme” quando si è appena scopato un cadavere mi fa vomitare, mi fa tremare, mi ripugna. Ma mi dico che mi occuperò dell’emotività in seguito e che la priorità ora è il processo che è iniziato e che lui deve assolutamente capire perché NO non siamo entrambi responsabili e che ha abusato di me.

Altri amici gli parlano nei giorni successivi, lui comincia a capire le cose e ammette di aver fatto un po’ di casino. Accetta di andarsene ma chiede tempo per farlo, sono d’accordo che ha una settimana di tempo per preparare la sua partenza.
Due giorni dopo, arriva G, l’aggressore gli racconta la mia richiesta di andarsene e il fatto che sono sostenuta. Causa uno scandalo in tutta la casa, dice che non è possibile escludere qualcuno senza una decisione collettiva, chiede un resoconto completo di ciò che è successo. La gente le dice che è a causa di uno stupro e questo è tutto quello che c’è da sapere. Non si arrende, avverte tutta la casa e le persone che la abitano: la mia storia diventa il tema di conversazione del momento. Mi spavento, la insulto e minaccio di picchiarla se non tiene la bocca chiusa.

Il giorno dopo non ci sono, quando torno a casa la sera, capisco che molte persone sono venute per un incontro nel proseguimento di quelli iniziati sulle prese di potere. Questo incontro era stato pianificato da tempo, ma con il caos del giorno prima si è trasformato in un dibattito sull’esclusione dell’aggressore. Alcuni dei miei amici mi dicono che quello che è venuto fuori da quell’incontro è stata la cosa più brutta che sia mai successa:

– Nessuna espulsione senza un incontro di 40 persone per sentirmi raccontare la storia dello stupro.
– Se l’aggressore merita l’esclusione, allora lo merito anch’io, perché ho fatto violenza verbale e minacce il giorno prima su G.

L’aggressore si impossessa di tutto questo, si sente protetto e si riprende il suo posto in casa, dicendo che non se ne andrà senza una decisione comune. L’inizio del processo è completamente sabotato… Sparlare è una pratica comune in Oulx, iper usato per mettere pressione. Questa volta, i rumori nei corridoi dicono che è sicuro che sto abusando, che non è uno stupro, che comunque ho esagerato tutto nelle ultime settimane.

Mi arrivano tante cose dritte in faccia, la gente sta cristallizzando il conflitto per le prese di potere intorno alla mia richiesta che l’aggressore lasci il posto. Mi viene detto che sono io quella che prende il potere decidendo da sola come avviene la presa in carico. Nei giorni successivi, M una compagna a cui credo di potere fare fiducia sui temi del sessismo mi assicura il suo sostegno: gli parlo dello stupro. Riconosce lo stupro, ma aggiunge che la situazione attuale è complicata. Sento che non vuole affrontare il conflitto con i suoi compagni, immagino che se ne starà alla larga. Per niente… Torna sul posto per prendere un caffè con l’aggressore e M. mi spiega quando torna a casa che è stato per sentire la sua versione, che lui ed io non diciamo la stessa cosa, ma scherziamo?! Dice che le dà fastidio sostenermi come aveva promesso di fare: do di matto, mi sento iper tradita, i fatti diventano davvero pubblici e creano un dibattito sul fatto che si tratti o meno di stupro.

Sono passati due giorni dalla scadenza del termine imposto all’aggressore, e sono in uno stato di allerta permanente tra la sua presenza e la pressione delle stronze. Forzo la sua partenza immediata minacciando di buttarlo fuori con la violenza fisica. Lui se ne va con lei, urla, vuole aggredirmi, loro lo rassicurano dicendogli che poi si vendicherà per il male che gli faccio. Lo ospitano per tre giorni e lo mandano via, perché non è loro amico e ora che non possono più usarlo per arrivare a me sta diventando ingombrante.
L’abusante interrompe ogni contatto con tutte le persone che si sono offerte di rimanere in contatto per continuare il processo. Tutte le mie speranze che capisca delle cose sono andate in frantumi, quando invece all’epoca era la mia priorità per la guarigione dei miei traumi. Sento che vogliono mandarmi via, che il fatto di aver parlato di questo stupro e di avere delle aspettative mi rende vulnerabile. È un buon momento per attaccarmi e mettere in discussione il mio posto qui. Sono inquieta, la gente vorrebbe che non restassi più qui e ha intuito che questa è l’opportunità per me di andarmene.

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Ho resistito un altro mese, volevo sopravvivere in quel posto per non dovermi arrendere. Volevo andarmene per scelta, non per disgusto. Questo posto e le persone che lo abitano hanno significato molto per me. Avrei voluto prendermi una vacanza, una pausa, ma sentivo che muoversi in quel momento lasciava spazio al ritorno di lui e avevo paura di non avere la forza di tornare. Mi sentivo come se fossi in una guerra permanente per dimostrare che avevo ancora la forza di stare qui e che non erano riusciti a farmi del male.
6 mesi dopo sto meglio, mi prendo cura di me stessa, ma la mia rabbia non si è ancora placata. Questo stupro non è stato né il primo né l’ultimo, ma un “trattamento” come questo è l’ultimo senza rompere la faccia a qualcuno.

Non é la prima volta che in questo ambiente delle persone con un forte capitale sociale, tipo grandi star tra i militanti, si sentono legittimi a far tacere una vittima, mettendole pressione, se non pure alleandosi, contro di lei, con una o più persone accusate di oppressioni. Il risultato é spesso lo stesso: coloro che hanno aperto la bocca sulle violenze vissute se ne vanno o sono spinti via, si ritrovano isolati a gestire i loro traumi e la mancanza di sostegno. É umanamente schifoso, psicologicamente hardcore, e politicamente indefendibile in un ambiente che si dice anti-autoritario.

Prendere a priori la difesa di un uomo-cis accusato di stupro contro la donna che dice di esserne la vittima, é già sostenere il patriarcato. E focalizzare l’attenzione delle discussioni sui rapporti di potere su questa storia, é stata una buona pratica per non porsi la questione del razzismo che trasmettiamo nei nostri squat, alla frontiera o altrove. Questa è la mia esperienza di oppressione da parte di questo gruppo. Nello stesso periodo, molti di noi erano sotto pressione per non rimanere. C’era molto razzismo, classismo, psico-fobia e tossicofobia. Quando un gruppo di persone elitarie possiede gli strumenti, la rete, i privilegi e la legittimità di un luogo, questo è ciò che accade. MORTE AL PATRIARCATO, MORTE AL POTERE.

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