L’Otto marzo abbiamo scioperato contro la violenza maschile sulle donne

L’8 marzo è il giorno dello sciopero globale femminista e transfemminista. Da 6 anni abbiamo trasformato una giornata di festa rituale, in cui venivano regalate al massimo alle donne le mimose o buoni acquisto al supermercato, in una giornata di lotta. Lotto marzo interrompiamo tutte le attività produttive e riproduttivi, smettiamo di svolgere tutte le nostre mansioni. E quando ci fermiamo noi, si ferma il mondo!
Scegliamo di sottrarci per due motivi. Da un lato per mostrare quanto lavoro, pagato e non pagato, ci ritroviamo a svolgere. Spesso pagate meno o non pagate per niente, fuori e dentro la casa. Dall’altro per sottrarci a un mondo che ci molesta, ci stupra, abusa di noi, ci uccide. Interrompiamo il meccanismo dello sfruttamento lavorativo e della violenza, come elemento sistemico delle nostre vite.
La violenza maschile contro le donne è sistemica: attraversa tutti gli ambiti delle nostre vite, si articola, autoalimenta e riverbera senza sosta dalla sfera familiare e delle relazioni, a quella economica, da quella politica e istituzionale, a quella sociale e culturale, nelle sue diverse forme e sfaccettature – come violenza fisica, sessuale e psicologica. Non si tratta, dunque, di un problema emergenziale, né di una questione geograficamente o culturalmente determinata. La violenza maschile è espressione del patriarcato, sistema di potere maschile che a livello materiale e simbolico ha permeato la cultura, la politica, le relazioni pubbliche e private. Oppressione e ineguaglianza di genere non hanno quindi un carattere sporadico o eccezionale: al contrario, strutturale. Da femministe abbiamo sempre denunciato le catene imposte dal patriarcato alla nostra autodeterminazione e libertà di scelta – attraverso gli stereotipi sessuali, il diritto, la chiesa o altri istituti religiosi e, soprattutto, attraverso la famiglia – evidenziando la connessione intima tra questi strumenti di dominio e l’imposizione della norma eterosessuale.
Lo sciopero femminista è l’occasione che abbiamo per ribellarci contro l’oppressione, per mettere in collegamento le diverse condizioni in cui viviamo e conquistare la forza di dire che non vogliamo più essere vittime o solo numeri nelle statistiche della violenza, dei femminicidi, della disoccupazione, della povertà. Nessuno parlerà per noi, dobbiamo parlare in prima persona.
Il patriarcato, e dunque la violenza maschile, sono inoltre da sempre funzionali alle logiche del profitto e dell’accumulazione capitalistica, all’organizzazione della società secondo rapporti di sfruttamento. Rapporti che attraversano la società e che si intersecano, in molti modi, con i dispositivi di potere e subordinazione basati sul genere, la classe e l’origine. In tal senso affermiamo che la violenza assume molteplici configurazioni e che il femminicidio è soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno assai più profondo e radicato.
Nel 2021 sono state uccise 113 donne e 2 persone trans. Dall’inizio del 2022 ad ora, sono già 14 quelle che mancano, perché uccise dal proprio compagno, da un parente, da un conoscente.
La violenza maschile contro le donne si esprime in molte forme: come dominazione sui corpi, ma anche sui territori. Ci definiamo ecofemministe perché guardiamo al corpo-territorio come luogo di sfruttamento, estrazione, profitto, violenza patriarcale. L’ambiente che ci circonda subisce le stesse logiche che si abbattono sui corpi femminilizzati. Lottare per la tutela dei territori, per l’ecosistema, contro il consumo del suolo e delle risorse è una lotta femminista in grado di tenere insieme la dimensione del corpo, della cura e della giustizia sociale e ambientale.

La violenza maschile ha toccato il suo apice quando nel 2008 viene denunciato da una donna uno stupro di gruppo, avvenuta alla fortezza dal basso. Sette uomini tra i 20 e i 25 anni vengono indagati, e in un primo momento sei di loro vengono condannati. Nel 2015 però la corte d’appello di Firenze assolve con formula piena tutti gli imputati, perchè il fatto non sussiste. nella sentenza vengono fatti numerosi richiami alla vita privata della donna, definita come ““soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, capace di gestire la propria (bi)sessualità …  e in quanto tale ugualmente responsabile dello stupro. 

Nonostante il biasimo della corte europea la sentenza non è cambiata: colpevole è sempre e comunque la donna. Perchè troppo libera, perchè bisessuale, perchè autonoma o determinata, perchè camminava di notte da sola, perchè si divertiva a una festa. Il fenomeno della violenza secondaria reitera la violenza contro le donne, lesbiche, trans e persone non binarie, in tutti i luoghi in cui avviene un tentativo di denuncia della violenza: ospedali, tribunali, ma anche gruppi di amici, familiari. La parola delle donne non basta per essere credibile perchè in fondo, in qualche modo, se la sono cercata, sempre e comunque. Ma a Firenze, non è la prima volta che capitano episodi del genere. La notte tra il 6 e il 7 settembre 2017 due studentesse americane sono state adescate e poi violentate da due carabinieri in servizio, Marco Camuffo e Pietro Costa, entrambi condannati in via definitiva. 

Eppure, neanche una condanna basta per cambiare il clima di complicità e omertà che circonda gli episodi di stupro. Poco dopo infatti Marco Camuffo si è sentito libero di aprire il suo bar a Prato, nei pressi di una scuola, e vantandosi di aver “liberato” il posto dalla precedente gestione di cinesi. Razzismo e sessismo si intrecciano, e i colpevoli possono continuare la propria vita indisturbati, mentre ad essere ridotte alla vergogna, al silenzio, alla gogna mediatica e spesso alla vittimizzazione secondaria dei tribunali sono sempre le donne che denunciano. 

Queste vicende rappresentano una vergogna di cui sono responsabili tutti coloro che alimentano e riproducono la cultura dello stupro. Contro tutti loro ripetiamo che sorella, noi ti crediamo! Che crediamo alle parole di  chi denuncia, che non servono dettagli, spiegazioni, prove e testimoni. Che a definire cosa sia o meno violenza sono le parole di chi la vive. Gridiamo ancora più forte che l’aggressore sei tu, lo stupratore sei tu. Vogliamo rompere la catena del silenzio e della complicità che spesso circonda lo stupro, le molestie e gli abusi. Per fare un violento ci vuole un villaggio, e noi quel villaggio lo facciamo esplodere con la nostra rabbia!

Non vogliamo avere paura di uscire sole la notte. Le strade libere le fanno le donne che le attraversano. Non vogliamo aver paura di avere una gonna troppo corta, di aver bevuto troppo, di aver riso troppo, di aver detto forse e poi no, di non avere urlato. Vogliamo essere libere di starci finchè ci va, e che il nostro no sia sempre e comunque un no. Non siamo noi a dover imparare a difenderci meglio, ma il mondo attorno a noi che deve cambiare. Agitiamo in aria le nostre chiavi di casa, simbolo della libertà di poter girare dove vogliamo, di notte e di giorno. Le agitiamo perchè siamo stanche di doverle stringere in mano per paura che qualcuno ci attacchi, siamo stanche di vedere in ogni ombra, in ogni persona una minaccia. Vogliamo essere libere di camminare, da sole e con le nostre sorelle. Libere dalla violenza domestica nelle nostre case e libere dalla violenza fuori, nella città.

Non uno stupro di più, non una donna di più ridotta al silenzio e colpevolizzata! 

Sorella noi ti crediamo! Se toccano una, rispondiamo tutte!

 

 

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