Piccola riflessione femminista.
Tanti anni fa (circa 40) mentre partecipavo alla campagna elettorale per una compagna femminista mi venne in mente un’immagine: quasi tutte le unità di crisi, i comitati per l’emergenza, le commissioni di esperti sono composte da soli uomini o comunque gli uomini sono in schiacciante maggioranza. Invece, nella realtà, la vita quotidiana si regge sul lavoro (in buona parte non pagato) delle donne.
Mi chiesi allora e mi chiedo ancora oggi se le molte lacune nei provvedimenti di urgenza dipendono dal fatto che a decidere sono persone che con le quotidiane emergenze hanno sempre avuto poco a che fare.
Gli esempi sono infiniti, ne cito solo qualcuno. Penso a una serie di cose connesse con la presenza dei figli in casa: se si sposta in casa il lavoro, è poco smart e molto working; per chi continua a lavorare fuori, si pone il problema di lasciare a casa, con la sola compagnia di tv e internet, un figlio o una figlia di 13 anni (il buono baby sitter è previsto fino a 12 anni) mentre la legge, ancora in vigore, considera abbandono di minore lasciare una persona minore di 14 in una situazione non protetta. Potrei continuare…
E non ditemi che questi problemi riguardano anche gli uomini, i padri. Non si tratta di una differenza fra i sessi, ma di una asimmetrica distribuzione dei ruoli sociali, che rimane invariata e che anzi le situazioni emergenziali accentuano.
Ancora: quasi tutti i provvedimenti previsti per il mondo del lavoro, apparentemente uguali perché indifferenziati, agiscono in maniera differenziata su lavoratori e lavoratrici, visto che queste ultime sono maggioranza fra coloro che lavorano in nero o svolgono un lavoro precario.
Le donne sono maggioranza fra chi svolge lavori legati alla cura delle persone: di colf e badanti nei provvedimenti non c’è traccia. Le donne sono maggioranza anche fra il personale in certi rami nel commercio: non a caso si usa prevalentemente il femminile, le cassiere, le commesse, molte delle quali continuano a lavorare, spesso senza dispositivi di protezione.
C’è un aspetto di cui si sono accorti anche giornalisti e commentatori, cioè la diminuzione delle denunce o delle segnalazioni per violenza domestica, che non vuol dire che sono diminuiti gli episodi, anzi… La famiglia, considerata luogo di “sicurezza” per difenderci dal contagio, si presenta così come il luogo dove la violenza maschile, in queste condizioni può solo aumentare.
Ma di un’altra situazione nessuno pare essersi accorto: per fare spazio negli ospedali i reparti dove si può fare l’IVG sono spesso spostati in luoghi meno raggiungibili aumentando così le difficoltà. E non viene finora presa in considerazione la proposta, da tempo avanzata dai movimenti delle donne e dalle associazioni pro-choice, di garantire l’aborto farmacologico (RU486) a un numero maggiore di donne, consentendolo anche nei consultori. Probabilmente quest’ultima cosa più che da un esplicito atteggiamento antiabortista deriva dalla convinzione profonda che i diritti delle donne NON sono diritti umani.
Poi ci sono cose al limite del ridicolo: pare che a Wuhan fra i generi indispensabili che venivano forniti nella fase di chiusura totale non ci fossero gli assorbenti!
C’è una connessione stretta fra le difficoltà rispetto all’IVG e questo ultimo piccolo esempio: entrambi rivelano un atteggiamento che noi chiamiamo atteggiamento “gender blind”. Le donne non vengono “viste” e quindi non sono destinatarie di provvedimenti che tengano conto dei diversi ruoli sociali. E invece mai come adesso è evidente che, se non continuassimo a farci carico di tutti, di tutte, non solo delle persone fragili, anziani/e, vecchi/e, bambini/e, ci sarebbero molti problemi in più.
Ho spesso pensato, un po’ schematizzando, che il modo con cui il patriarcato e la cultura maschile “vede” le donne porta a classificarle in tre categorie.
Ci sono le donne eccezionali, quelle che contano, dirigono qualcosa, delle quali si parla quasi con stupore, pensando che sono brave “nonostante siano donne”, oppure vengono accusate con indignazione di non essere abbastanza dolci, troppo aggressive, dimenticando che chi è arrivata a ricoprire quei ruoli ha dovuto (quasi sempre) assumere atteggiamenti maschili.
Ci sono poi le donne vittime di violenza, di femminicidio, di persecuzione, di cui ci si occupa con dolorosa attenzione, quasi sempre trascurando il piccolo particolare che sono vittime di un uomo: avete notato che le donne “fanno notizia” quasi sempre quando sono vittime oppure quando litigano fra loro? Ma questo sarebbe un altro discorso.
Ci sono infine le (tante) donne “al servizio di…”, quelle a cui spetta il lavoro di riproduzione, la cura delle relazioni, il sostegno non tanto e non solo di anziani e bambini, ma del maschio adulto lavoratore. L’uso dei termini al maschile è voluto, perché non c’è simmetria in questi rapporti. Per ogni donna che si occupa di un uomo, di un anziano, di un bambino, quanti sono gli uomini che con lo stesso impegno di tempo (e di attenzione) si occupano di una donna, di un’anziana, di una bambina? Sono donne “al servizio di…” anche quelle che nelle associazioni, nei partiti, nei movimenti si occupano dell’organizzazione, che è in sostanza la cura delle relazioni interne (meno di quelle esterne, viste come più “politiche”). Un esempio: nei dibattiti spesso ci sono solo (o più) relatori mentre spesso chi coordina è una donna.
Questo prima di un’emergenza, nella cosidetta normalità, e durante l’emergenza, come vediamo oggi. E dopo? Cosa succederà dopo?
Succederà quello che è successo dopo la fine di ogni guerra (odio la metafora bellica, ma in questo caso ci sta bene) quando le donne che avevano sostituito gli uomini al fronte sono state riportate nel ruolo che la “natura” ,cioè la struttura patriarcale della società, ha assegnato loro. Non ho messo il punto interrogativo, perché sono sicura che questo accadrà. E sta a noi impedirlo!
Tutte le Istituzioni sono impegnate a vari livelli e secondo le proprie competenze per limitare il contagio nella popolazione tramite l’isolamento sociale. Tuttavia in questo sforzo qualcosa potrebbe ancora farsi. L’evolversi dell’ epidemia COVID-19 in Italia, dal suo focolaio nel Lodigiano, ha chiarito come gli ospedali sono i luoghi più a rischio contagio in questo momento. Il Governo dovrebbe quindi fermare le ospedalizzazioni non necessarie in questo momento di emergenza, così da proteggere la salute di cittadini e operatori sanitari dalle possibilità di contagio e soprattutto per massimizzare le scarse risorse presenti nella sanità pubblica di fronte all’epidemia COVID-19.
Questo tuttavia non sembra ancora accadere in materia di interruzione volontaria di gravidanz farmacologica: un intervento che continua a essere ospedalizzato anche in piena emergenza sanitaria. È il momento di introdurre l’aborto telemedico in Italia, un’espressione che si riferisce all’aborto farmacologico eseguito in modalità di telemedicina. Spieghiamo meglio di cosa si tratta.
Telemedicina significa assistenza medica in forma telematica. Essa permette al medico di offrire cure mediche al paziente in modalità online, a distanza, grazie all’uso delle moderne tecnologie. L’aborto farmacologico indica, invece, una delle due modalità con cui l’ interruzione volontaria di gravidanza può essere praticata. L’altra opzione è quella dell’aborto chirurgico (di solito per aspirazione). L’aborto farmacologico avviene tramite l’assunzione di due farmaci, il mifepristone (RU486) e il misoprostolo. In Italia questa possibilità è stata introdotta solo nel 2009 (a fronte del 1988 in Francia e 1990 in Regno Unito).
L’aborto farmacologico è una pratica sicura (‘safe’) per l’ Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS), la quale ha incluso entrambi i farmaci abortivi nella lista delle medicine essenziali stilata dalla medesima organizzazione. Nonostante la sicurezza dell’aborto farmacologico sia attestata dalla più autorevole letteratura scientifica internazionale, la possibilità di abortire tramite ‘pillola’ in Italia è fortemente ostacolata da misure che risultano incomprensibili alla luce della best practice internazionale.
L’aborto farmacologico è infatti accessibile in Italia solo nelle prime 7 settimane (a fronte della sicurezza attestata per le prime 9 settimane dalla stessa OMS) e in regime di ricovero ospedaliero ordinario (di tre giorni). Alcune Regioni, discostandosi dalle linee di indirizzo ministeriali, hanno introdotto il regime di ricovero in day-hospital per somministrare la RU486 e il misoprostolo. Queste barriere di accesso all’aborto farmacologico vengono giustificate dietro la generica clausola della tutela della salute della donna. Questo dichiarato interesse è però non protetto nei fatti come emerge dagli stessi dati del Ministero della Salute, i quali ci confermano che in Italia viene ancora praticato il raschiamento (addirittura nel 40,6 per cento dei casi in Sardegna), nonostante questa non sia una tecnica abortiva sicura per la stessa OMS. Invece, la pratica sicura dell’aborto farmacologico è adottata solo nel 17,8 per cento dei casi.
L’epidemia del COVID-19 ci offre un nuovo argomento per dubitare che l’ospedalizzazione dell’aborto nel nostro paese risponda all’interesse della salute della donna. Quest’ultima si trova oggi inutilmente esposta al rischio del contagio in ospedale, uno scenario che può essere evitato grazie all’aborto telemedico nelle prime nove settimane. La sicurezza dell’aborto telemedico nelle prime nove settimane è ormai attestata da ampia letteratura scientifica internazionale. Introdurre l’aborto telemedico nelle prime nove settimane in questo momento è un modo efficace di occuparsi della salute dei cittadini e degli operatori sanitari, e soprattutto di massimizzare le risorse scarse della sanità pubblica in un momento di emergenza come quello odierno. Abbiamo osservato come l’epidemia in corso abbia fornito la base giuridica per adottare inedite limitazioni alle nostre libertà personali. Sulla medesima base possono essere disposte misure straordinarie per la somministrazione dei farmaci abortivi. Non sarebbe la prima volta.
Nel 1976, due anni prima la legalizzazione dell’aborto con la legge 194/1978, sotto il Governo Andreotti fu autorizzato l’aborto terapeutico per le donne incinte nelle donne nelle zone colpite dal disastro di Seveso. Ancora, proprio per fronteggiare l’emergenza Covid-19, il Regno Unito ha annunziato il 23 marzo le misure straordinarie per introdurre l’aborto telemedico in casa, con forte deroga alla modalità ordinaria (salvo poi fare marcia indietro senza fornire spiegazioni). Privilegiare la procedura farmacologica, deospedalizzandola , è oggi la misura più idonea da adottare in considerazione di tutti gli interessi in gioco. È tempo dell’aborto telemedico.
Fonti: OMS, Safe abortion: technical and policy guidance for health systems, Ginevra, 2012 (prima edizione 2003). OMS, Model Lists of Essential Medicines, Ginevra, 2017 (20a edizione). MINISTERO DELLA SALUTE, Linee di indirizzo sull’interruzione volontaria di gravidanza tramite mifepristone e prostaglandine, approvate 24 giugno 2010, disponibili online al seguente indirizzo www.salute.gov.it. MINISTERO DELLA SALUTE, Relazione sull’ attuazione Legge 194/78 tutela sociale maternità e interruzione volontaria di gravidanza – dati definitivi 2017, 18 gennaio 2019,disponibile sul sito istituzionale del Ministero: www.salute.gov.it
* Elena Caruso (dottoranda alla Kent Law School, Regno Unito)
e Marina Toschi (ginecologa, direttivo dell’European Society of Contraception and Reproductive Health)
sono entrambe membri di PRO-CHOICE rete italiana contraccezione aborto