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Piccola riflessione femminista.
Tanti anni fa (circa 40) mentre partecipavo alla campagna elettorale per una compagna femminista mi venne in mente un’immagine: quasi tutte le unità di crisi, i comitati per l’emergenza, le commissioni di esperti sono composte da soli uomini o comunque gli uomini sono in schiacciante maggioranza. Invece, nella realtà, la vita quotidiana si regge sul lavoro (in buona parte non pagato) delle donne.
Mi chiesi allora e mi chiedo ancora oggi se le molte lacune nei provvedimenti di urgenza dipendono dal fatto che a decidere sono persone che con le quotidiane emergenze hanno sempre avuto poco a che fare.
Gli esempi sono infiniti, ne cito solo qualcuno. Penso a una serie di cose connesse con la presenza dei figli in casa: se si sposta in casa il lavoro, è poco smart e molto working; per chi continua a lavorare fuori, si pone il problema di lasciare a casa, con la sola compagnia di tv e internet, un figlio o una figlia di 13 anni (il buono baby sitter è previsto fino a 12 anni) mentre la legge, ancora in vigore, considera abbandono di minore lasciare una persona minore di 14 in una situazione non protetta. Potrei continuare…
E non ditemi che questi problemi riguardano anche gli uomini, i padri. Non si tratta di una differenza fra i sessi, ma di una asimmetrica distribuzione dei ruoli sociali, che rimane invariata e che anzi le situazioni emergenziali accentuano.
Ancora: quasi tutti i provvedimenti previsti per il mondo del lavoro, apparentemente uguali perché indifferenziati, agiscono in maniera differenziata su lavoratori e lavoratrici, visto che queste ultime sono maggioranza fra coloro che lavorano in nero o svolgono un lavoro precario.
Le donne sono maggioranza fra chi svolge lavori legati alla cura delle persone: di colf e badanti nei provvedimenti non c’è traccia. Le donne sono maggioranza anche fra il personale in certi rami nel commercio: non a caso si usa prevalentemente il femminile, le cassiere, le commesse, molte delle quali continuano a lavorare, spesso senza dispositivi di protezione.
C’è un aspetto di cui si sono accorti anche giornalisti e commentatori, cioè la diminuzione delle denunce o delle segnalazioni per violenza domestica, che non vuol dire che sono diminuiti gli episodi, anzi… La famiglia, considerata luogo di “sicurezza” per difenderci dal contagio, si presenta così come il luogo dove la violenza maschile, in queste condizioni può solo aumentare.
Ma di un’altra situazione nessuno pare essersi accorto: per fare spazio negli ospedali i reparti dove si può fare l’IVG sono spesso spostati in luoghi meno raggiungibili aumentando così le difficoltà. E non viene finora presa in considerazione la proposta, da tempo avanzata dai movimenti delle donne e dalle associazioni pro-choice, di garantire l’aborto farmacologico (RU486) a un numero maggiore di donne, consentendolo anche nei consultori. Probabilmente quest’ultima cosa più che da un esplicito atteggiamento antiabortista deriva dalla convinzione profonda che i diritti delle donne NON sono diritti umani.
Poi ci sono cose al limite del ridicolo: pare che a Wuhan fra i generi indispensabili che venivano forniti nella fase di chiusura totale non ci fossero gli assorbenti!
C’è una connessione stretta fra le difficoltà rispetto all’IVG e questo ultimo piccolo esempio: entrambi rivelano un atteggiamento che noi chiamiamo atteggiamento “gender blind”. Le donne non vengono “viste” e quindi non sono destinatarie di provvedimenti che tengano conto dei diversi ruoli sociali. E invece mai come adesso è evidente che, se non continuassimo a farci carico di tutti, di tutte, non solo delle persone fragili, anziani/e, vecchi/e, bambini/e, ci sarebbero molti problemi in più.
Ho spesso pensato, un po’ schematizzando, che il modo con cui il patriarcato e la cultura maschile “vede” le donne porta a classificarle in tre categorie.
Ci sono le donne eccezionali, quelle che contano, dirigono qualcosa, delle quali si parla quasi con stupore, pensando che sono brave “nonostante siano donne”, oppure vengono accusate con indignazione di non essere abbastanza dolci, troppo aggressive, dimenticando che chi è arrivata a ricoprire quei ruoli ha dovuto (quasi sempre) assumere atteggiamenti maschili.
Ci sono poi le donne vittime di violenza, di femminicidio, di persecuzione, di cui ci si occupa con dolorosa attenzione, quasi sempre trascurando il piccolo particolare che sono vittime di un uomo: avete notato che le donne “fanno notizia” quasi sempre quando sono vittime oppure quando litigano fra loro? Ma questo sarebbe un altro discorso.
Ci sono infine le (tante) donne “al servizio di…”, quelle a cui spetta il lavoro di riproduzione, la cura delle relazioni, il sostegno non tanto e non solo di anziani e bambini, ma del maschio adulto lavoratore. L’uso dei termini al maschile è voluto, perché non c’è simmetria in questi rapporti. Per ogni donna che si occupa di un uomo, di un anziano, di un bambino, quanti sono gli uomini che con lo stesso impegno di tempo (e di attenzione) si occupano di una donna, di un’anziana, di una bambina? Sono donne “al servizio di…” anche quelle che nelle associazioni, nei partiti, nei movimenti si occupano dell’organizzazione, che è in sostanza la cura delle relazioni interne (meno di quelle esterne, viste come più “politiche”). Un esempio: nei dibattiti spesso ci sono solo (o più) relatori mentre spesso chi coordina è una donna.
Questo prima di un’emergenza, nella cosidetta normalità, e durante l’emergenza, come vediamo oggi. E dopo? Cosa succederà dopo?
Succederà quello che è successo dopo la fine di ogni guerra (odio la metafora bellica, ma in questo caso ci sta bene) quando le donne che avevano sostituito gli uomini al fronte sono state riportate nel ruolo che la “natura” ,cioè la struttura patriarcale della società, ha assegnato loro. Non ho messo il punto interrogativo, perché sono sicura che questo accadrà. E sta a noi impedirlo!

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lei ci scrive, #iorestoacasama…

Una compagna risponde a questa testimonianza del 30 marzo https://www.facebook.com/nonunadimenofirenze/posts/1287518524775374?__tn__=K-Ra

Cara amica,

sono una compagna di Firenze ma voglio mantenere l’anonimato. Ti ringrazio per aver condiviso la tua storia e questo ha dato il coraggio anche a me di condividere la mia.

Io avevo 21 anni, anche io ero convinta che fosse l’uomo della mia vita. Era molto più grande di me e con lui potevo vivere delle libertà che ancora non avevo sperimentato; invece quella relazione si trasformò presto in una gabbia. Controlli ossessivi, chiamate martellanti, umiliazioni pesanti per le mie “disattenzioni”, mi lasciava almeno una volta settimana per le mie “colpe”, continue richieste di aiuto e di presenza che mi obbligavano a cancellare appuntamenti con le mie amiche; dopo 3 anni di relazione non ne avevo più nemmeno una. Ero dipendente da lui anche io, non riuscivo a lasciarlo, cercavo di comportarmi “meglio” per fare andare avanti il rapporto. Poi un giorno non so cosa è successo… ho detto di no ad una sua richiesta ed lì è stato l’inizio della fine. Mi ha spaccato tutta la camera e come al solito mi ha lasciato, poi come al solito è tornato ma io gli ho detto che non ero più disposta a rimettermi con lui. Non mi ha mai picchiato, ha però minacciato di morte me e la mia famiglia, ha nascosto un’ascia sotto il letto come ammonimento, mi seguiva d’appertutto… aveva ancora le chiavi di casa mia e tornava spesso a dormire da me abusando di me a volte con la forza, a volte mi facevo fare perchè terrorizzata. Tutto questo è durato 3 mesi fino al momento in cui ho avuto il coraggio di andare alla polizia a fare un ammonimento, sono stata fortunata perchè poi mi ha lasciato in pace. Ero ormai sola ed è stato difficile rialzarmi. A salvarmi è stata la sorellanza femminista di una persona che si è presa cura di me con cuore aperto seguendomi in terapia, che mi ha aiutato a trovare fiducia in me stessa e senza la quale non sarei chi sono oggi. A salvarmi ogni giorno sono le compagne con cui mi confronto quotidianamente e che rappresentano un importante punto di riferimento per me… vorrei anche raccontare un evento su questo. Da quando è finita la relazione sognavo regolarmente il mio ex, i sogni seguivano una trama ricorrente, stavo con lui che aveva sempre atteggiamenti violenti, ma io non riuscivo a lasciarlo rimanendo nella stessa gabbia soffocante vissuta anni prima. Questi sogni mi hanno perseguito per 15 anni ormai fino al giorno in cui ho raccontato di questa relazione alle mie compagne in una delle nostre assemblea condivisione. Pochi giorni dopo ho fatto di nuovo un sogno, eravamo nella stessa stanza e io non me ne curavo, poi lui si avvicina con fare intimidatorio, io mi alzo, lo butto a terra e lo mazzolo bene bene fino a fargli venire una crisi epilettica. Nella vita reale non mi sporcherei le mani per picchiarlo ma questo sogno mi ha finalmente liberato, ha dimostrato a me stessa di non avere più paura di lui, le mie compagne mi avevano dato forza e da allora non l’ho più sognato. Il racconto alle nostre compagne ci libera dalle paure, la condivisione in un ambiente sicuro fatto di ascolto e di vicinanza ci permette di uscire dal silenzio assordante, a scoprire che non siamo sole, è un atto rivoluzionario svelare le ferite e le violenze che permeano le nostre vite non come eccezionali ma come quotidiane; è un atto rivoluzionario accogliere con abbraccio femminista i racconti delle compagne e dar loro voce per sfondare i muri di silenzio e di indifferenza che ci circondano.

Per questo cara compagna, ti vorrei ringraziare per la tua forza e coraggio nel raccontare la tua storia; ti ringrazio perchè il tuo racconto in questi tempi produttivi di riflessioni ha liberato anche il mio.

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Lei ci scrive #iorestoacasama…

Avevo 15 anni quando è iniziata la nostra storia d’amore. Era ovviamente il sentimento più
forte che avessi mai sentito e nella mia mente era sicuramente l’uomo della mia vita. Si litigava all’inizio per piccole cose, poi ha iniziato a fare delle richieste, poi ha iniziato a
chiedermi di fare delle rinunce e così piano piano le cose sono andate a peggiorare.

Dopo un anno mi ha messo le mani addosso per la prima volta. L’anno seguente è iniziato l’incubo.
E la cosa peggiore è che mi ha avvertito: “se resti ti faccio passare l’inferno”.

Ma io ero troppo piccola e fragile per riuscire ad andarmene, così rimasi.

Avevo 17 anni una delle prime volte che mi ha picchiata. Stava sopra di me, urlava e continuava a darmi di puttana. Mi picchiava sulla testa, prima con le mani, poi con un casco e con delle scarpe. Mi ricordo i giorni seguenti a scuola, le fitte di dolore che mi trapassavano la testa da un momento a un altro. Era insopportabile.

Raccontai qualcosa di quello che stava succedendo alle mie amiche che andarono subito a dirlo a mia madre. Ma da una parte non c’era bisogno di spiegare, i lividi che cercavo di nascondere sul mio viso parlavano chiaro. Sì cercavo di nasconderli, andavo da sola al
supermercato e compravo il fondo tinta, solo per i lividi. Perché ovviamente, da quando era iniziato l’incubo, non mi era più permesso truccarmi, avere Facebook, vestirmi come volevo, uscire..

C’erano delle regole che dovevo seguire, sennò erano botte (anche se tanto erano
botte lo stesso). Controllava ogni mia mossa. Mia mamma lo denunciò, dopo qualche mese
di carcere preventivo ci fu il processo, ma io ero ancora troppo debole e dissi che non ero la
vittima di nessuno. Caddero le accuse, “il fatto non sussite”. Venne liberato e riiniziò a picchiarmi.

Lo so cosa pensate. Ma quello che non sempre viene raccontato è che, in una relazione tossica e violenta come questa, spesso la vittima ha una grossa dipendenza nei confronti del suo carnefice, esattamente come una droga. Anche perché si creano delle dinamiche in cui si alterna la violenza a un qualcosa che ci sembra amore, le punizioni alla ricompensa. Per questo è così difficile uscirne. La tua mente è completamente fottuta in queste montagne russe di emozioni e situazioni che il carnefice ti fa vivere.

Sono rimasta insieme a lui 10 anni. Mi ha picchiato tante volte, che ormai ho perso il conto e non ricordo nemmeno più. Mi ricordo solo le scene peggiori, perché gli schiaffi erano quasi all’ordine del giorno. Mi ricordo le sue minacce, i suoi occhi che erano come quelli del diavolo quando era incazzato. Mi ricordo quando con una mano mi teneva per i capelli e mi diceva “guardami negli occhi” prima di darmi un altro schiaffo e un altro ancora e un altro ancora. Mi ricordo le lacrime, le pedate, il sapore del sangue, le mie preghiere e la mia voglia di morire. Mi ricordo che facevo finta di aver voglia di fare l’amore per ridurre le possibilità che si incazzasse e che mi picchiasse. Non sapevo come uscirne. Ero accecata dalla paura. Negli ultimi anni della nostra storia non mi picchiava più ma mi ha messo le
mani al collo un paio di volte. Avevo comunque ancora delle regole da seguire, meno rigide ma c’erano sempre.

Sono tanti i fattori che mi hanno fatto andare avanti. All’inizio senz’altro la paura, poi la
speranza che cambiasse, poi mi sentivo di abbandonarlo, pensate un po’.. E la solitudine è stata un fattore determinante perchè avevo perso tutto, tutte le amiche, le passioni, le
aspirazioni, i sogni, tutto. Ci ho messo tanto a realizzare che non era l’uomo della mia vita.
Anzi forse l’ho sempre saputo ma non volevo ammetterlo a me stessa. Si può dire che ho passato gli ultimi anni della nostra storia aspettando che la relazione finisse. E’ stata una
lunga agonia.

Il punto è che esperienze come queste ti portano a ritrovarti chiusa in una prigione mentale dalla quale si fa fatica a uscire anche dopo la fine della relazione. I tuoi pensieri sono distorti, non hai lucidità. Io sono riuscita a chiudere la relazione e sto cercando di uscire dalla mia prigione grazie a una terapeuta, ma non posso fare a meno di pensare che sarei anche potuta morire.

Quindi il mio messaggio oggi è a scopo preventivo. Ci sono dei segnali d’allarme che ti
avvisano quando un uomo è possessivo e tendenzialmente violento. Quello che voglio dirvi
è di non essere mai dipendenti da qualcuno, soprattutto emotivamente. Se sentite
l’attaccamento, la dipendenza, un’eccessiva paura di vivere senza quella persona c’è già
qualcosa di sbagliato in principio. Rischiate non solo di non accorgervi che piega sta prendendo la vostra relazione ma soprattutto di non essere in grado di uscirne.

Con tutto il cuore vi invito ad essere libere, indipendenti e a non sentirvi mai obbligate a vivere una situazione che vi crea dolore.

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Riceviamo: #iorestoacasama…

In questi giorni di quarantena il sentimento che mi pervade è l’angoscia e l’impotenza. Sono angosciata perchè vedo la mia terra, la mia amata Sicilia, in preda alla disperazione.
Tutt* noi, almeno una volta abbiamo vissuto situazioni in cui bisognava scendere a compromessi, per quei due soldi di stipendio. Io per prima mi sono ritrovata a lavorare più di 10 ore al giorno senza mai un giorno libero, con un contratto sul quale c’era scritto che ufficialmente, lavoravo 3 ore a settimana. Purtroppo però non ho potuto fare altrimenti. Il mantenimento lo gestisce mio padre, e noi purtroppo viviamo costrette a quella violenza economica e dipendenza che in teoria vorrebbero che subissimo; così ho deciso di andare a lavorare e accollarmi tutti i compromessi, anche se sapevo fossero sbagliati.
Adesso quello che mi viene in mente è come faranno le famiglie, le quali per lo più lavorano in nero, dimenticate già prima della quarantena, adesso completamente abbandonate a loro stesse. Troppo spesso abbiamo a che fare con padroni avari che pensano solo al loro profitto, e all’omertà che pervade il nostro carattere, perchè ci ritroviamo costretti a non poterci neanche lamentare, per evitare di perdere o essere aggiunti nelle “liste nere” di chi denuncia, rischiando di non lavorare mai più.
Penso a tutte quelle donne rinchiuse in casa con i loro aguzzini, alle quali viene ripetuto costantemente di rimanere a casa perchè è più sicuro per il bene della comunità, comunità che, afflitta da omertà, di loro se ne frega, perchè viviamo in un mondo che se non tocca te direttamente e in questo momento preciso non muoverai mai un dito. Mi interrogo ogni giorno su come poterle aiutare, mi viene in mente per esempio: inventare un “emoticon di aiuto” da inviare a un’amica fidata.
In questo momento così triste di quarantena però la mia angoscia è diventata rabbia e la mia impotenza è diventata voglia di fare e di trovare mezzi alternativi per comunicare, ora più che mai la mia voglia di lottare e far sentire le mie idee è più forte!
Mi auguro anche, che questo momento la quarantena susciti in tant* altr* le stesse domande e voglia di cambiare il mondo come in me.. perchè io al mondo che vivevamo prima non ci voglio proprio tornare! Abbiamo una grande possibilità di cambiare le cose e credo che vada sfruttata al meglio.
L’omertà è un’abitudine e possiamo cambiarla!

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Riceviamo #iorestoacasama…

In questi giorni di quarantena la mia quotidianità, come quella di molti, è stata più o meno stravolta e dico più o meno perché non sono nuovi i sentimenti che provo, non è nuovo questo sentimento di impotenza che cresce dentro me, anzi mi
fa compagnia da molto tempo. Sono cresciuta con una madre che ha approfittato di ogni occasione per ricordarmi e inculcarmi che avrei dovuto essere una donna forte e indipendente, senza però dirmi esplicitamente quale fosse il prezzo da pagare per diventarlo, e con un padre che è stato si un buon padre, ma non sempre un buon marito. Ero bambina e ho dovuto scoprire il prezzo vedendolo con i miei occhi quando in casa si creavano situazioni assurde solo perché mia madre aveva osato dire la sua, ma sappiamo tutti che all’uomo macho non va giù che la donna sappia fare qualcosa di più che un piatto di pasta e del bucato profumato. Dunque in questi giorni in cui siamo costretti a stare a casa ho pensato a quando in quei momenti mi chiedevo perché mia madre non tenesse la bocca chiusa per il bene di tutti, soprattutto il suo e ho capito perché non lo facesse. E’ stata dura tirarlo fuori dai cassetti della mia mente e ancora di più prendere coscienza di tutto quello che abbiamo vissuto, ma mi serviva per liberarmi dall’angoscia che provo se ripenso a quei momenti. La stessa che provo quando penso a tutte quelle donne e a quei bambini che in questo preciso momento stanno vivendo quello che abbiamo vissuto noi. Ad oggi sono costretta a pensare che per fortuna l’angoscia è superba e non va via e quasi ne sono felice, perché è diventata la
mia forza e ho sempre avuto paura che se fosse andata via sarei diventata come tutte quelle persone che non si sentono toccate finché il problema non li guarda in faccia personalmente, che rimangono inermi. L’impotenza l’accetto, l’inerzia no. Ho fatto miei gli insegnamenti di mi madre anche se in certe situazioni lavorative e sentimentali ho dovuto piegarmi, ma ho dovuto farlo per poter crescere e imparare quando è il caso di farlo e quando no. Oggi non mi piego al pensiero purtroppo comune che “chi nasce tondo non può morire quadrato”, non mi piago ad accettare che quello che si sceglie come compagno di vita diventi compagno di morte e per questo accetterò quei compromessi sani che non ledono nessuno. Lotterò per quella bambina che sono stata, per quei bambini che sono adesso, per la donna che sono grazie a mia madre e per tutte quelle che hanno il suo coraggio.

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#iorestoacasama…

Oggi, sabato 28 marzo alle ore 12 inizia la CAMPAGNA di NON UNA DI MENO #IORESTOACASAMA… LOTTO TUTTI I GIORNI!
DOVE? Segui le indicazioni sui nostri SOCIAL (Twitter, Instagram, Facebook) e continua a leggere qui per avere più info.

#iorestoacasama è una campagnal per rompere la solitudine e l’isolamento, per raccogliere la voce di chi paga l’emergenza, per metterci in connessione e far circolare strumenti e informazioni per aiutarci e sostenerci, per lottare insieme.

Invia testimonianze della quarantena, racconta come è cambiata la tua vita, la tua affettività, la relazione
con il tuo corpo, il tuo rapporto con un tempo senza tempo (ritrovato o sospeso?). L’emergenza #covid_19 non è uguale per tutti, fa esplodere le contraddizioni, approfondisce le ingiustizie sociali e le
discriminazioni. Cominciamo a pensare adesso il mondo che verrà dopo.

????COME CONTRIBUIRE
A partire da oggi alle 12.00 pubblica testi, video, immagini,
accompagnate dall’HT #iorestoacasama…
I puntini di sospensione accompagnano la tua presa di parola, per uscire dall’isolamento emotivo, dalla solitudine, ci connettiamo con i fili di un hashtag, perché non sei sola, ovunque ti trovi.

-Invia un racconto, una poesia, un testo in prima o in terza persona (firmati o anonimi)
-Invia dei video-racconti sulla tua condizione e la tua esperienza
-Invia delle foto, grafiche, artwork (firmate o anonime)

????DOVE?
????SU TWITTER
TWEET STORM E INQUINAMENTO DALLE 12

Dalle 12.00 alle 14.00 su Twitter chiunque abbia un account usi
l’hashtag ufficiale #iorestoacasa insieme al secondo hashtag lanciato da Non Una di Meno #iorestoacasama inserendo i contenuti e le grafiche della campagna per, contemporaneamente, inquinare l’HT ufficiali con le nostre parole, esperienze e rivendicazioni e salire in trending topic con il nostro #iorestoacasama.

????SU INSTAGRAM
DA OGGiI E NEI PROSSIMI GIORNI

Usa l’HT #iorestoacasama e invia come messaggio sulla pagina di Nonunadimeno_firenze oppure tagga la pagina ig stessa, oppure taggala nella tua storia.
Usa anche l’HT ufficiale #iorestoacasa nelle tue storie per rendere
visibile la tua storia comparire nelle storie in evidenza nazionale.

????SU FACEBOOK
DA OGGI E NEI PROSSIMI GIORNI

Usa l’HT #iorestoacasama e invia come messaggio sulla pagina di Non una di meno Firenze oppure tagga la pagina fb stessa, a tua scelta.

Questa campagna inizia oggii ma non si conclude in un giorno. Continua anche nei giorni successivi sui vari social a tua scelta a condividere le tue esperienze e rompere l’isolamento per lottare insieme attraverso immagini, video, grafiche e post.

Segui gli account di Non una di meno per avere gli aggiornamenti sulla campagna #iorestoacasama

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Assemblee settimanali segui la nostra pagina Facebook

In questo periodo di emergenza per il Covid-19 abbiamo deciso di annullare, almeno per il momento, le assemblee settimanali.

Tutti i mercoledì in orario variabile ci troveremo insieme, segui la Pagina Facebook per essere aggiornat*

https://www.facebook.com/nonunadimenofirenze/

Ma ora più che mai è importante e necessario trovare nuove pratiche e nuovi metodi per non sentirci sole e isolate, per poter condividere pensieri e sensazioni o difficoltà che stiamo affrontando.

Invitiamo tutte coloro che volessero stare insieme, senza stare vicine a collegarsi con noi

Lo faremo usando una piattaforma di condivisione se desideri esserci scrivi a nonunadimenofirenze@gmail.com

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In tempi di Covid-19 è necessario l’aborto telemedico. L’ospedalizzazione è un pericolo per la salute pubblica

Elena Caruso e Marina Toschi *

Tutte le Istituzioni sono impegnate a vari livelli e secondo le proprie competenze per limitare il contagio nella popolazione tramite l’isolamento sociale. Tuttavia in questo sforzo qualcosa potrebbe ancora farsi. L’evolversi dell’ epidemia COVID-19 in Italia, dal suo focolaio nel Lodigiano, ha chiarito come gli ospedali sono i luoghi più a rischio contagio in questo momento. Il Governo dovrebbe quindi fermare le ospedalizzazioni non necessarie in questo momento di emergenza, così da proteggere la salute di cittadini e operatori sanitari dalle possibilità di contagio e soprattutto per massimizzare le scarse risorse presenti nella sanità pubblica di fronte all’epidemia COVID-19.

Questo tuttavia non sembra ancora accadere in materia di interruzione volontaria di gravidanz farmacologica: un intervento che continua a essere ospedalizzato anche in piena emergenza sanitaria. È il momento di introdurre l’aborto telemedico in Italia, un’espressione che si riferisce all’aborto farmacologico eseguito in modalità di telemedicina. Spieghiamo meglio di cosa si tratta.

Telemedicina significa assistenza medica in forma telematica. Essa permette al medico di offrire cure mediche al paziente in modalità online, a distanza, grazie all’uso delle moderne tecnologie. L’aborto farmacologico indica, invece, una delle due modalità con cui l’ interruzione volontaria di gravidanza può essere praticata. L’altra opzione è quella dell’aborto chirurgico (di solito per aspirazione). L’aborto farmacologico avviene tramite l’assunzione di due farmaci, il mifepristone (RU486) e il misoprostolo. In Italia questa possibilità è stata introdotta solo nel 2009 (a fronte del 1988 in Francia e 1990 in Regno Unito).

L’aborto farmacologico è una pratica sicura (‘safe’) per l’ Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS), la quale ha incluso entrambi i farmaci abortivi nella lista delle medicine essenziali stilata dalla medesima organizzazione. Nonostante la sicurezza dell’aborto farmacologico sia attestata dalla più autorevole letteratura scientifica internazionale, la possibilità di abortire tramite ‘pillola’ in Italia è fortemente ostacolata da misure che risultano incomprensibili alla luce della best practice internazionale.

L’aborto farmacologico è infatti accessibile in Italia solo nelle prime 7 settimane (a fronte della sicurezza attestata per le prime 9 settimane dalla stessa OMS) e in regime di ricovero ospedaliero ordinario (di tre giorni). Alcune Regioni, discostandosi dalle linee di indirizzo ministeriali, hanno introdotto il regime di ricovero in day-hospital per somministrare la RU486 e il misoprostolo. Queste barriere di accesso all’aborto farmacologico vengono giustificate dietro la generica clausola della tutela della salute della donna. Questo dichiarato interesse è però non protetto nei fatti come emerge dagli stessi dati del Ministero della Salute, i quali ci confermano che in Italia viene ancora praticato il raschiamento (addirittura nel 40,6 per cento dei casi in Sardegna), nonostante questa non sia una tecnica abortiva sicura per la stessa OMS. Invece, la pratica sicura dell’aborto farmacologico è adottata solo nel 17,8 per cento dei casi.

L’epidemia del COVID-19 ci offre un nuovo argomento per dubitare che l’ospedalizzazione dell’aborto nel nostro paese risponda all’interesse della salute della donna. Quest’ultima si trova oggi inutilmente esposta al rischio del contagio in ospedale, uno scenario che può essere evitato grazie all’aborto telemedico nelle prime nove settimane. La sicurezza dell’aborto telemedico nelle prime nove settimane è ormai attestata da ampia letteratura scientifica internazionale. Introdurre l’aborto telemedico nelle prime nove settimane in questo momento è un modo efficace di occuparsi della salute dei cittadini e degli operatori sanitari, e soprattutto di massimizzare le risorse scarse della sanità pubblica in un momento di emergenza come quello odierno. Abbiamo osservato come l’epidemia in corso abbia fornito la base giuridica per adottare inedite limitazioni alle nostre libertà personali. Sulla medesima base possono essere disposte misure straordinarie per la somministrazione dei farmaci abortivi. Non sarebbe la prima volta.

Nel 1976, due anni prima la legalizzazione dell’aborto con la legge 194/1978, sotto il Governo Andreotti fu autorizzato l’aborto terapeutico per le donne incinte nelle donne nelle zone colpite dal disastro di Seveso. Ancora, proprio per fronteggiare l’emergenza Covid-19, il Regno Unito ha annunziato il 23 marzo le misure straordinarie per introdurre l’aborto telemedico in casa, con forte deroga alla modalità ordinaria (salvo poi fare marcia indietro senza fornire spiegazioni). Privilegiare la procedura farmacologica, deospedalizzandola , è oggi la misura più idonea da adottare in considerazione di tutti gli interessi in gioco. È tempo dell’aborto telemedico.

Fonti: OMS, Safe abortion: technical and policy guidance for health systems, Ginevra, 2012 (prima edizione 2003). OMS, Model Lists of Essential Medicines, Ginevra, 2017 (20a edizione). MINISTERO DELLA SALUTE, Linee di indirizzo sull’interruzione volontaria di gravidanza tramite mifepristone e prostaglandine, approvate 24 giugno 2010, disponibili online al seguente indirizzo www.salute.gov.it. MINISTERO DELLA SALUTE, Relazione sull’ attuazione Legge 194/78 tutela sociale maternità e interruzione volontaria di gravidanza – dati definitivi 2017, 18 gennaio 2019,disponibile sul sito istituzionale del Ministero: www.salute.gov.it

* Elena Caruso (dottoranda alla Kent Law School, Regno Unito)
e Marina Toschi (ginecologa, direttivo dell’European Society of Contraception and Reproductive Health)
sono entrambe membri di PRO-CHOICE rete italiana contraccezione aborto

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14 MARZO – MARIELLE PRESENTE!

A due anni dall’uccisione della compagna Marielle Franco urliamo ancora più forte la nostra rabbia seguendo il suo esempio.

La notte del 14 marzo 2018 Marielle Franco, attivista brasiliana femminista, Nera, bisessuale, anticapitalista, per i diritti umani, ecologista, viene assassinata a Rio de Janeiro mentre rientrava a casa.

L’uccisione di Marielle è stata un’ azione politica, intenzionata a zittire la forza e la determinazione con cui l’ attivista lottava contro le disuguaglianze di genere e la violenza della polizia.

Marielle è morta per aver scelto di non tacere, per aver dedicato la propria vita a combattere, nella ferma convinzione che un mondo differente deve esistere e va costruito.

Una, dieci, cento di meno sono le donne, compagne e sorelle che mancano.

Le loro morti pesano su di noi come quelle ogni donna uccisa, offesa, ferita. Per questo rispondiamo nell’unico modo che Marielle ci ha insegnato: continuando a lottare.

PER MARIELLE NON UN MINUTO DI SILENZIO MA UNA VITA INTERA DI LOTTA

NON UNA DI MENO – FIRENZE

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Assemblea Settimanale

ASSEMBLEA SETTIMANALE

In questo periodo di emergenza per il Covid-19 abbiamo deciso di annullare, almeno per il momento, le assemblee settimanali.

Troveremo comunque, ora più che mai nuove pratiche e nuovi metodi per non sentirci sole e isolate.

Questo mercoledì 11 marzo ci riposiamo ma seguiteci poiché per la prossima settimana troveremo il modo per stare insieme malgrado la lontananza.

Insieme siamo partite insieme torneremo, non siamo sole!!!
Se vuoi scriverci: nonunadimenofirenze@gmail.com

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