Vi invitiamo domani alle 11:00 al Palazzo di giustizia per la conferenza stampa: LO STUPRO NON SI ASSOLVE!
COMUNICATO STAMPA
Basta violenza dei tribunali!
Giustizia per Martina
La Corte di Appello ha assolto qualche settimana fa a Firenze tutti gli imputati del processo sulla morte di Martina Rossi, accusati di tentato stupro – ragione che avrebbe spinto Martina a fuggire cadendo dal balcone di un hotel a Palma di Maiorca il 3 agosto 2011. Dalle circostanze per la morte di Martina scompare dunque l’aggressione sessuale come causa scatenante, nonostante le precedenti sentenze.
Ancora una volta nei tribunali viene reiterato il meccanismo che attenua, invisibilizza o misconosce la violenza maschile contro le donne. In questo modo i tribunali riproducono la spirale della violenza. Le donne “non dicono no abbastanza forte, portano gonne troppo corte, sono isteriche o esagerate” oppure sono considerate nelle perizie dei tribunali matte e incapaci di occuparsi dei figli/e”, che vengono così tolti alle madri per darli in affidamento a case famiglie o a padri maltrattanti.
Non ci stancheremo mai di denunciare le istituzioni la cui funzione è la tutela di una giustizia reale e sociale, e non certo patriarcale. Il sessismo tuttora permea le strutture e le istituzioni che ci circondano, togliendo alle donne la legittimità di denunciare una violenza.
Vogliamo vivere libere dalla violenza, vogliamo poter denunciare ed essere ascoltate e credute. Non chiediamo di essere protette, chiediamo giustizia.
Il lockdown e la fase di pandemia globale hanno evidenziato quanto sia ancora capillare la violenza domestica, ma anche le disparità di genere nel mondo del lavoro, nella cura dei figli/e e della famiglia, nell’accesso al reddito: il 26 giugno, in tutta Italia, Nonunadimeno torna nelle strade a gridare ancora una volta che sui nostri corpi non passeranno!
Per Martina, per tutte quelle che non sono sopravvissute e per tutte noi che r-esistiamo
LO STUPRO NON SI ASSOLVE!
Venerdì 26 giugno conferenza stampa e presidio davanti al tribunale di Firenze alle 11:00 viale A. Guidoni 61
* attenzione questo testo parla di stupro e violenza psicologica
Lei scrive:
Ho iniziato a scrivere questo testo diversi mesi dopo aver lasciato Oulx in un contesto di cura. Ho scelto di rispondere a ciò che è successo attraverso la scrittura e la trasmissione, ma nella vita reale questa non è la mia arma. Se sono arrivata a questo punto è perché è una delle mie ultime opzioni per reagire a quello che è successo lì, e mi sono resa conto che potevo contare solo su me stessa per calmare la mia rabbia. Fino ad allora non avevo mai trovato il tempo per liberarmi di tutto ciò che era accaduto laggiù. Ho scritto, riletto, cambiato, ricominciato da capo. Gli ultimi quattro mesi che ho vissuto lì sono stati molto densi di eventi e di emozioni. Ho trascritto come potevo cio che era essenziale ai miei occhi. In questo testo faccio delle scorciatoie, probabilmente troppo binarie su gruppi di persone: “loro”/”noi”, e mi sembra ovvio che non posso essere obiettiva. Ma qui, vi avverto, ho fatto quello che potevo affinché non sia solo la rabbia ad animare questo testo. Sono disponibile a chiarire le cose, rispondere alle domande, insomma, avere degli scambi intorno a questo testo mi va bene.
MORTE AL POTERE
Si tratta di una lettera aperta sulle violenze di genere e le prese di potere che hanno avuto luogo a Oulx, un occupazione sul confine italo-francese tra settembre e novembre 2019.
Questa lettera vuole rendere visibile ciò che vi è accaduto perché è ancora troppo comune nei nostri ambienti. Ma anche chiaramente per bruciare le persone nel nostro piccolo mondo di militanti dove la reputazione può essere così importante.
Questo testo mira a varie persone di un gruppo di gente molto implicate alla frontiera da 2-3 anni.
Voglio bruciarli nelle nostre reti, perché le loro posizioni e i loro comportamenti sono stati iper pericolosi per la mia salute mentale. E certamente non solo per la mia… Non voglio parlare al posto di altre persone, ma dopo questo evento, siamo stati una dozzina di persone che hanno vissuto o sono state coinvolte in Oulx per diversi mesi per andarsene definitivamente.
Ma se tutto questo è potuto accadere è anche a causa di molte persone che hanno sostenuto o appoggiato le posizioni dei loro amici. Erano già diverse settimane che la gente aveva cercato di mettere in guardia dall’atmosfera mega sessista del luogo e che, sotto la copertura dell’efficienza e dell’urgenza, non c’è stato il tempo di parlarne… Nell’estate del 2019, ho vissuto a Oulx per diversi mesi. Ci vivo ogni giorno, è la mia base principale, il luogo in cui mi impegno e anche la mia casa. Non sono l’unica, ci sono molte persone che vivono lì e considerano questo posto come una casa. È anche uno spazio pieno di persone: persone che sono venute ad attraversare il confine, che sono qui da una settimana e persone che sono state coinvolte al confine per diversi anni e che passano regolarmente.
A settembre, con le persone che vivono in casa, dopo un incontro di troppo dove ci sentiamo infantilizzate e/o dominate da persone che sono lì da molto tempo siamo stufe. Proponiamo quindi alle persone presenti a questo incontro di creare discussioni intorno alle dinamiche di potere perché troviamo che occupano troppo spazio. Ci sentiamo disprezzate in relazione a ciò che facciamo qui (gestire la vita quotidiana, preparare il cibo, entrare in contatto con le persone…). Ci sembra di non fare abbastanza “politica”. Insomma, siamo stufe, vogliamo parlarne, che esista e che si possa andare avanti insieme su come ognuno ha potere sulle persone. Siamo maldestre nella nostra proposta, le persone interessate non vogliono affatto mettersi in discussione.
Da quel momento in poi, è la guerra fredda, la gente è molto turbata dalle critiche che facciamo: “Sono anti-autoritario, l’autoritarismo è il peggior insulto che possa ricevere, bla, bla, bla, bla, bla…”… Non ci arrendiamo e finisco per essere in conflitto personale con diverse persone. Con il passare del tempo, i nostri rapporti si fanno più tesi con le discussioni che abbiamo avviato. Le “discussioni” sulle prese di potere sono discussioni di 10 ore in cui ci si trova solo tra i bianchi. Ognuno diffonde la sua visione di come dovrebbe essere la lotta al confine, è una merda, non si parla di potere e tutti gli amici non bianchi che ci vivono non si sentono di partecipare. Arrivo a un punto in cui mi dico che in realtà non ho voglia di fare parte dell’immaginario “grande collettivo” di Oulx. Sono qui semplicemente perché per me ha senso vivere qui e amo le persone con cui vivo e quello che succede qui. La grande lotta per “distruggere” il confine tra le piccole ragazze bianche politicizzate non mi parla.
Allo stesso tempo, parlo con alcuni amici di uno stupro che ho subito due mesi prima. La persona che mi ha violentata è un amico intimo, vive con noi, passa molto tempo con me. Spiego loro che il mio cervello si è appena reso conto che con lui è successo qualcosa di schifoso, dico loro che una mattina di agosto mi sono svegliata nuda nel suo letto dopo una serata in cui ero ubriaca fradicia. Non ho memoria di quello che è successo. Ho negato per due mesi per proteggere il mio rapporto con questa persona che era molto importante per me, ho seppellito quella mattina hardcore lontano nella mia testa. Dico ai ragazzi che la negazione ha funzionato per un po’, ma ora me la prendo in faccia e ho bisogno di aiuto. E in più che avevo già cercato di parlare con l’aggressore e lui mi aveva assicurato di non sapere cosa fosse successo, che anche lui era ubriaco e che non ricordava. So che mi sta mentendo, mi ha confessato poco prima di quella volta che ha avuto dei sentimenti per me a partire da quella notte, mi fa impazzire, ho bisogno di far esistere “quella notte” e che ci sia un processo di riparazione.
Le mie richieste sono:
– che degli amici vadano a parlarci, così che possa raccontare quello che è successo e che io lo sappia e che lui possa capire che ha fatto della merda.
– che lui se ne vada via per qualche settimana per darmi un po’ d’aria, in modo che io possa incassare il colpo e rimanere a Oulx.
– Che le persone a lui vicine mantengano il legame una volta che se ne è andato per aiutarlo ad andare avanti sul suo concetto di consenso, che faccia meno stronzate e anche che non si trovi isolato da un giorno all’altro.
– Che il processo sia fatto solo con persone di cui mi fido.
Un gruppo di amiche lo va a prendere il giorno dopo, lui finisce per dire che siamo “andati a letto insieme”, che è stato un errore perché eravamo ubriachi, ma che è colpa nostra. Dice che se non mi sento bene in sua presenza, può andarsene.
Le amiche mi fanno un resoconto, sono in crisi. Mi riconosco quando sono ubriaca, a fine serata è difficile stare in piedi. Il fatto che abbia immaginato che “andiamo a letto insieme” quando si è appena scopato un cadavere mi fa vomitare, mi fa tremare, mi ripugna. Ma mi dico che mi occuperò dell’emotività in seguito e che la priorità ora è il processo che è iniziato e che lui deve assolutamente capire perché NO non siamo entrambi responsabili e che ha abusato di me.
Altri amici gli parlano nei giorni successivi, lui comincia a capire le cose e ammette di aver fatto un po’ di casino. Accetta di andarsene ma chiede tempo per farlo, sono d’accordo che ha una settimana di tempo per preparare la sua partenza.
Due giorni dopo, arriva G, l’aggressore gli racconta la mia richiesta di andarsene e il fatto che sono sostenuta. Causa uno scandalo in tutta la casa, dice che non è possibile escludere qualcuno senza una decisione collettiva, chiede un resoconto completo di ciò che è successo. La gente le dice che è a causa di uno stupro e questo è tutto quello che c’è da sapere. Non si arrende, avverte tutta la casa e le persone che la abitano: la mia storia diventa il tema di conversazione del momento. Mi spavento, la insulto e minaccio di picchiarla se non tiene la bocca chiusa.
Il giorno dopo non ci sono, quando torno a casa la sera, capisco che molte persone sono venute per un incontro nel proseguimento di quelli iniziati sulle prese di potere. Questo incontro era stato pianificato da tempo, ma con il caos del giorno prima si è trasformato in un dibattito sull’esclusione dell’aggressore. Alcuni dei miei amici mi dicono che quello che è venuto fuori da quell’incontro è stata la cosa più brutta che sia mai successa:
– Nessuna espulsione senza un incontro di 40 persone per sentirmi raccontare la storia dello stupro.
– Se l’aggressore merita l’esclusione, allora lo merito anch’io, perché ho fatto violenza verbale e minacce il giorno prima su G.
L’aggressore si impossessa di tutto questo, si sente protetto e si riprende il suo posto in casa, dicendo che non se ne andrà senza una decisione comune. L’inizio del processo è completamente sabotato… Sparlare è una pratica comune in Oulx, iper usato per mettere pressione. Questa volta, i rumori nei corridoi dicono che è sicuro che sto abusando, che non è uno stupro, che comunque ho esagerato tutto nelle ultime settimane.
Mi arrivano tante cose dritte in faccia, la gente sta cristallizzando il conflitto per le prese di potere intorno alla mia richiesta che l’aggressore lasci il posto. Mi viene detto che sono io quella che prende il potere decidendo da sola come avviene la presa in carico. Nei giorni successivi, M una compagna a cui credo di potere fare fiducia sui temi del sessismo mi assicura il suo sostegno: gli parlo dello stupro. Riconosce lo stupro, ma aggiunge che la situazione attuale è complicata. Sento che non vuole affrontare il conflitto con i suoi compagni, immagino che se ne starà alla larga. Per niente… Torna sul posto per prendere un caffè con l’aggressore e M. mi spiega quando torna a casa che è stato per sentire la sua versione, che lui ed io non diciamo la stessa cosa, ma scherziamo?! Dice che le dà fastidio sostenermi come aveva promesso di fare: do di matto, mi sento iper tradita, i fatti diventano davvero pubblici e creano un dibattito sul fatto che si tratti o meno di stupro.
Sono passati due giorni dalla scadenza del termine imposto all’aggressore, e sono in uno stato di allerta permanente tra la sua presenza e la pressione delle stronze. Forzo la sua partenza immediata minacciando di buttarlo fuori con la violenza fisica. Lui se ne va con lei, urla, vuole aggredirmi, loro lo rassicurano dicendogli che poi si vendicherà per il male che gli faccio. Lo ospitano per tre giorni e lo mandano via, perché non è loro amico e ora che non possono più usarlo per arrivare a me sta diventando ingombrante.
L’abusante interrompe ogni contatto con tutte le persone che si sono offerte di rimanere in contatto per continuare il processo. Tutte le mie speranze che capisca delle cose sono andate in frantumi, quando invece all’epoca era la mia priorità per la guarigione dei miei traumi. Sento che vogliono mandarmi via, che il fatto di aver parlato di questo stupro e di avere delle aspettative mi rende vulnerabile. È un buon momento per attaccarmi e mettere in discussione il mio posto qui. Sono inquieta, la gente vorrebbe che non restassi più qui e ha intuito che questa è l’opportunità per me di andarmene.
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Ho resistito un altro mese, volevo sopravvivere in quel posto per non dovermi arrendere. Volevo andarmene per scelta, non per disgusto. Questo posto e le persone che lo abitano hanno significato molto per me. Avrei voluto prendermi una vacanza, una pausa, ma sentivo che muoversi in quel momento lasciava spazio al ritorno di lui e avevo paura di non avere la forza di tornare. Mi sentivo come se fossi in una guerra permanente per dimostrare che avevo ancora la forza di stare qui e che non erano riusciti a farmi del male.
6 mesi dopo sto meglio, mi prendo cura di me stessa, ma la mia rabbia non si è ancora placata. Questo stupro non è stato né il primo né l’ultimo, ma un “trattamento” come questo è l’ultimo senza rompere la faccia a qualcuno.
Non é la prima volta che in questo ambiente delle persone con un forte capitale sociale, tipo grandi star tra i militanti, si sentono legittimi a far tacere una vittima, mettendole pressione, se non pure alleandosi, contro di lei, con una o più persone accusate di oppressioni. Il risultato é spesso lo stesso: coloro che hanno aperto la bocca sulle violenze vissute se ne vanno o sono spinti via, si ritrovano isolati a gestire i loro traumi e la mancanza di sostegno. É umanamente schifoso, psicologicamente hardcore, e politicamente indefendibile in un ambiente che si dice anti-autoritario.
Prendere a priori la difesa di un uomo-cis accusato di stupro contro la donna che dice di esserne la vittima, é già sostenere il patriarcato. E focalizzare l’attenzione delle discussioni sui rapporti di potere su questa storia, é stata una buona pratica per non porsi la questione del razzismo che trasmettiamo nei nostri squat, alla frontiera o altrove. Questa è la mia esperienza di oppressione da parte di questo gruppo. Nello stesso periodo, molti di noi erano sotto pressione per non rimanere. C’era molto razzismo, classismo, psico-fobia e tossicofobia. Quando un gruppo di persone elitarie possiede gli strumenti, la rete, i privilegi e la legittimità di un luogo, questo è ciò che accade. MORTE AL PATRIARCATO, MORTE AL POTERE.
???? AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA! ???? #popwok
Compartir: mangiare insieme, conoscerci, accompagnarci, stare insieme.
Ieri POP WOK – mensa femminista si è di nuovo trasferita su un grande prato e non abbiamo solo cenato ma ci siamo divertite a stare insieme: incontrarci, allestire il campo di pallavolo, giocare, ci siamo sfidate fino all’ultimo punto ????
C’eravamo tutte/u: chi ha dato vita al progetto e tutte le donne* che abbiamo incontrato
Grazie ???? lo rifacciamo presto! Appuntamento a lunedi prossimo…
Come femminist* transnazionali oggi articoliamo un discorso comune nella Giornata Internazionale della Salute delle Donne.
Ci uniamo come donne e persone LGBT*QIA+ per pronunciarci, come abbiamo sempre fatto sulla salute e le cure di cui abbiamo bisogno.
Abbiamo criticato l’egemonia maschile, bianca ed eteronormata nella progettazione e sviluppo dei sistemi di salute nel mondo. I nostri corpi esistono e hanno bisogno di essere riconosciuti e curati. Ci vogliamo vive e sane.
Basta con l’androcentrismo medico dove tanto i sintomi come gli effetti dei farmaci sono considerati a partire dal corpo maschile.
Ci siamo mobilitat* per decenni per i nostri diritti sessuali e riproduttivi.
Per una salute sessuale integrale, per la libertà di decidere sui nostri propri corpi. Vogliamo l’aborto libero e legale in tutti i paesi, ora! Vogliamo la pillola abortiva RU486 nei consultori pubblici per evitare inutili ricoveri ospedalieri.
Non vogliamo più violenza ostetrica né ginecologica e, se decidiamo di partorire, deve essere con dignità.
Basta con la patologizzazione e la psichiatrizzazione delle persone trans.
Vogliamo l’educazione sessuale nelle scuole e il diritto all’accesso libero e gratuito alla contraccezione.
Le violenze colpiscono molto di più le donne e le persone LGBTQIA+.
Basta con la violenza sui nostri corpi: basta femminicidio e violenza di genere,
basta mutilazioni genitali imposte alle persone intersex alla nascita per definirne uno o l’altro genere binario, nonché le terapie di riconversione forzata.
Basta con la pratica della mutilazione, clitoridectomia e infibulazione in qualsiasi parte del mondo.
Siamo quell* che lavoriamo di più, che in molti casi facciamo doppio lavoro, quello remunerato e quello non remunerato.
Oltre ai lavori con salario più basso, sulle nostre spalle ricadono i lavori di cura che la società trascura e con cui si sostiene.
Questo si riflette anche nell’elevato carico mentale di “coordinamento delle attività”. L’impossibilità di fermarsi o di avere uno spazio di riposo, perpetrato a causa dei ruoli assegnati per “uomini” e “donne”, influisce anche sulla nostra salute fisica e mentale. Questi carichi di lavoro non remunerato si sono aggravati durante la pandemia e la quarantena.
Questo contesto evidenzia che in prima linea ci siamo le donne e i corpi femminizzati, le persone che hanno ruoli di cura in generale, e quelle che lavorano nel campo della salute, che oggi assumono compiti di primaria necessità. Siamo noi che realizziamo i lavori di cura e salute che oggi sostengono milioni di persone in un contesto di crisi sanitaria ed economica globale.
I nostri corpi devono essere curati e rispettati, un sistema sano riconosce che la cura è al centro sia delle persone che dell’ambiente, e la riconosce come un compito per tutte, tutti, tuttu.
In questa nuova commemorazione della Giornata Internazionale della Salute delle Donne esigiamo riconoscimento e dignità per le nostre vite, e inoltre riconosciamo e salutiamo i milioni di donne e persone LGBTQIA+ che oggi creano reti di cura e rifornimenti, di fronte all’assenza e alle priorità degli Stati, perché viviamo in una emergenza.
Noi continuiamo a raccogliere, organizzare e tessere le reti per la vita.
COSA BOLLE IN PENTOLA? E’ PRONTA LA MENSA POPOLARE FEMMINISTA!
Abbiamo mischiato insieme un pizzico di solidarietà, molta sorellanza e molta cura, il desiderio di camminarci accanto in questo difficile periodo di emergenza sanitaria… da questi ingredienti nasce l’esperimento di POP WOK!
A #Firenze ci rivolgiamo a tutte coloro che non hanno avuto la possibilità di accedere a forme di sussidio statale. Donne, persone trans, sex workers che vivono ancora più duramente gli effetti della crisi
Abbiamo fatto rete con associazioni del territorio e con l’unità di strada, così insieme saremo in grado di garantire almeno un pasto a settimana, ma progettiamo di aumentare in corso d’opera!
Volete contribuire a questo progetto? Sabato 25 e domenica 26 potete partecipare a Antidoto sonoro: tutto il ricavato del crowdfunding andrà a sostenere POP WOK! https://www.facebook.com/events/234073747704985/
Contattateci per avere info o dare una mano!
Potete scrivere direttamente a questa pagina o a questi contatti:
Marghe 3314113727
Ale 3201658088
Alba 3280233504
Giada 3351787282
Ho attraversato una esperienza che si può definire protetta, senza
grossi intoppi, di facile gestione organizzativa.
A marzo con un compagno che, pur nella sua leggerezza, avrebbe voluto
fortemente diventare padre accanto a me, con una casa di proprietà, dei
progetti lavorativi che mi appassionano.
Conosciuti da qualche mese e già parliamo di famiglia, della possibilità
di costruire insieme qualcosa.
Abbiamo iniziato a convivere alla vigilia del lockdown. Senza sapere
cosa ci aspettava.
Quando ho fatto il test, sapevo di essere incinta. Lo sentivo. Ho quasi
34 anni.
Avevo già abortito quando ero troppo piccola anche solo per pensarci, ad un figlio.
Quindi sapevo quale era l’iter: richiesta di analisi delle
urine, Asl di Santa Rosa, mascherine guanti e gel.
Data l’età, tutti quelli che ho incontrato si sono complimentati, dal personale sanitario agli amministrativi.
Quindi mi chiedono perché non voglio il libretto di gravidanza subito. Danno tutto per scontato.
Non volevo passare dal mio medico curante, non avrei sopportato la
sicura ramanzina sull’orologio biologico e sul fatto che avrei dovuto
sapere cosa fare. Non lo sapevo.
La zia del mio compagno è ginecologa. Sono andata da lei a farmi fare la prima ecografia, e mi ha spiegato diligentemente cosa avrei dovuto fare nel caso avessi deciso di tenerlo. Ma mi ha fatto anche la richiesta per l’interruzione di gravidanza.
Sono tornata a casa col magone. Grazie al Covid e alla quarantena la mia vita lavorativa era volata via, il contratto a progetto per
l’associazione per cui lavoravo non sarebbe stato prorogato, ilprogetto saltato, le altre prospettive lavorative rimandate al prossimo anno. La convivenza appena iniziata prima del lockdown mi pesava l’impossibilità di uscire e incontrare amici e affetti anche.
Ho fatto una gran fatica a parlare col mio compagno delle mie ragioni,
ho infittito le sedute dal terapeuta per arrivare ad una decisione
consapevole.
La volta precedente il mio ragazzo dell’epoca mi aveva abbandonata,
tornando nella sua città natale e sparendo, ed io avevo avuto, per
fortuna, l’importante supporto dei miei genitori, che mi avevano
accompagnata all’intervento.
Questa volta invece ho cercato sostegno e supporto per la mia
scelta,pur nella difficoltà di accettazione della cosa, perché lui
voleva fortemente essere padre.
Ho aspettato tanto, troppo per l’aborto farmacologico, perché volevo essere sicura della mia scelta. Ma anche questo non è stato visto di buon occhio. Quando sono arrivata al consultorio, nella sala d’attesa insieme a me c’erano tante donne. L’accesso diretto del servizio
sanitario regionale è una manna dal cielo, ma prendere il numerino,
aspettare ore e ore, ed essere una delle tante che chiede di abortire fa
assomigliare la procedura ad una cosa burocratica.
A prescindere dal lockdown l’atmosfera era la stessa.
Al Palagi le ostetriche sono molto cordiali e in una sorta di
sospensione di giudizio, cosa che invece non posso dire del medico che mi ha visitata. L’età. Giusto, “a quest’età se non vuoi un figlio lo
devi sapere, devi mettere la spirale, non puoi far capitare queste cose
così a cuor leggero”. Il mio aveva il peso specifico del piombo.
“Perché hai aspettato così tanto?”
Perché mi è crollato il mondo addosso, perché non saprei come
riorganizzare la mia vita con un bebè in pancia, perché conosco il mio
compagno da troppo poco e perché non posso nemmeno abbracciare le mie amiche o andare fuori ad allenarmi vi basta? Perché l’angoscia che ho da
quando so di essere incinta non mi fa respirare e non mi sento
tranquilla in questa nuova convivenza forzata? É abbastanza?
Non ho risposto. Quando sei lì nel mezzo ti senti solo mortificata.
Causa Covid mi hanno dato appuntamento a Empoli, in una clinica privata convenzionata. Mi ha accompagnato il mio compagno, ma non è potuto entrare perché i familiari in questo periodo devono rimanere fuori.
Appuntamento alle 8, in fila con le mascherine, ingresso verso le 9 e
30. Poi ti parcheggiano su un letto fino all’ora dell’intervento, le
11.30 circa. Nel frattempo prendi l’antibiotico e le capsule per la
dilatazione del collo dell’utero. A Empoli sono stati tutti molto
cordiali, è che dal punto di vista medico un aborto chirurgico è una
questione da niente, e così viene trattata rispetto ad altre operazioni
importanti.
Entro in sala operatoria, pareti di colori accesi, mi posiziono
sul lettino, il personale sanitario scherza intorno a me, parlano del più
e del meno, mi viene il dubbio che stia veramente facendo la cosa
giusta, ma non concludo il pensiero, perché senza avvisarmi mi hanno
attaccato l’anestetico all’ago cannula che ho sul polso per la
sedazione.
Mi sveglio accanto al lettino dove ho aspettato l’intervento, mi
spostano dalla barella al letto. Ricordo che la volta scorsa mi svegliai con un’ infermiera che mi schiaffeggiava chiamando il mio
nome, quindi non male.
Una cosa di cui forse si parla poco è il dopo. Razionalmente sai di aver
preso la decisione giusta, ma l’esperienza è traumatica, e il periodo successivo è una tempesta ormonale mista alla sgradevole sensazione di esser stata violata, non ascoltata, non supportata, sicuramente non compresa nelle tue ragioni anche se nessuno lo dice apertamente.
Condividiamo testimonianza di aborto in tempi di COVID, grazie per il tuo racconto <3.
Ho scoperto di essere incinta con un test stick delle urine a marzo. In seguito, forte di una decisone ben più faticosa di quanto pensassi, è partita la ricerca per scoprire quei passaggi che voi ben spiegate nelle vostre informative. Dalle mie ricerche l’unico consultorio che allora sembrava disponibile a farmi passare subito è stata la Casa della Salute delle Piagge, senza bisogno di appuntamento, nel consultorio giovani sotto i 24 anni (tutti i venerdì pomeriggio), e lì mi è stata certificata la gravidanza con un secondo test stick delle urine che io stessa ho dovuto fornire. Di quel giorno ricordo solo una difficoltà enorme dall’altra parte, nella gestione delle giovani donne, nella mancanza di risorse, nell’impossibilità di dare supporto reale, nella paura delle operatrici sanitarie. Mi sono trovata, per intenderci, a dover urlare che ero incinta e volevo abortire nel bel mezzo di un corridoio, se pur poco affollato, perché alle dottoresse ed infermiere erano state date tali disposizioni. Dopo la certificazione sono stata reindirizzata sul Centro Ospedaliero Piero Palagi e devo dire che da qui è stato tutto in discesa, molto rapido, completamente gratuito. Al consultorio del centro è possibile andare senza prenotazione (ma con già la certificazione di gravidanza fatta da un medico) tutti i martedì e giovedì dalle 7.30 alle 9.30. Il primo giorno mi è stata fatta un’ecografia e le analisi del sangue ed ho potuto scegliere fra l’interruzione farmacologica e chirurgica. Scegliendo la prima, in due dosi, ho assunto subito la prima dose e due giorni dopo la seconda. Poi, dopo 15 giorni, la visita di controllo. Non è una storia che lascia grandi spunti ma ciò che ho riscontrato più di tutto è stata un’assenza totale di supporto psicologico e di tempo per indagare situazioni complicate, a differenza della mia. Tante, troppe volte mi sono trovata a dirmi, ma se io non avessi avuto accanto un ragazzo e delle amiche che si sono prese cura di me? Se avessi dovuto farlo di nascosto e quindi non avessi potuto andare a casa ad aspettare l’aborto spontaneo indotto da farmaci? Se fossi stata poco sicura della mia scelta e avessi avuto bisogno di saperne di più? Io non lo so come stiano le cose fuori dalla pandemia, quindi non so se questa distanza, questo modo di passare da caso in caso rapidamente e senza troppe domande sia dettato da esigenze attuali o sia la prassi, ma se lo fosse, sarebbe una grave pecca nel reale sostegno e tutela delle donne e delle loro scelte. A me è andata bene, credo che moltissime donne però possano raccontarvi una realtà ben diversa. Io mi porto dietro solo una piccola cicatrice che brucia solo quando mi capita di guardare un bimbo piccolo intorno a me e rendermi conto che il sorriso che mi vien fuori non esprime più gioia e voglia di futuro, ma malinconia e una spruzzatina di illogico rimpianto. Vi voglio bene.
Ho 28 anni.
Sono rimasta incinta l’8 Novembre del 2012, avevo 20 anni, non avevo un lavoro, non avevo una macchina, ero fidanzata da pochi mesi, non avevo nessuna “certezza”.
Quando apparsero le due linee sul test mi travolse un vortice di emozioni.
Il mio ragazzo di allora si arrabbiò moltissimo, mi ricordo perfettamente ancora le sue urla, i suoi pianti, la sua disperazione come se la sua vita si stesse sgretolando.
La causa ero io.
Affermazione sbagliata ma in quel momento non riuscì a pensarne altre, ero sola e non volevo causare del male a nessuno tanto meno alla persona che amavo.
Lo amavo più di quanto amassi me stessa.
Altra affermazione sbagliata ma che ho potuto comprendere solo l’anno scorso.
Non ho pensato alle conseguenze che potesse avere su di me l’affrontare un aborto, e lo affrontai al limite massimo dei 3 mesi, senza averne fatto parola con nessuno solo con il medico, passando quei mesi a nascondere la pancia con una fascia elastica, a guardare ecografie che in ospedale mi costrigevano a vedere, nessun medico mi chiese se avessi bisogno di parlare con qualcuno, se avessi bisogno di un supporto psicologico, nessuno mi spiegò le possibili conseguenze e l’importanza del parlarne.
Ho abortito chirurgicamente a Febbraio 2013.
Il Dolore più grande della mia vita.
Ho pianto.
Non volevo che nessuno mi toccasse.
Uscì dalla maternità con una corazza, con una maschera impenetrabile.
Per la mia mamma ero a dormire da un amica.
Ho dovuto passare una settimana con il “pannolone” ma nonostante tutto facevo come se non fosse mai successo niente.
L’unica cosa che è cambiata da quel giorno è che ho iniziato a dedicare la mia vita al mio ragazzo, non gli avrei causato più alcun dolore.
Ho passato 7 anni a far sì che io fossi quella perfetta e che la sua vita fosse perfetta.
Inconsciamente ero una pentola a pressione e l’anno scorso sono esplosa, senza particolare motivo, la mia armatura si è distrutta come una bolla di sapone.
Avrebbe voluto un figlio ma io no.
Lo odiavo perché nella mia testa non era giusto.
Ho lasciato quel ragazzo.
Ho scelto me.
Ho iniziato a raccontarlo alla mia famiglia, alle mie amiche, a provare a parlarne nella maniera più spontanea e sincera, senza vergogna e riconoscendo di aver bisogno di un aiuto professionale per elaborare un lutto, per far sì che il mio dolore non fosse più una ferita aperta ma che restasse una cicatrice dalla quale poter andare avanti.
L’aborto è un diritto di tutte noi, siamo padrone solo noi stesse del nostro corpo e non siamo obbligate, essendo donne, a desiderare di essere madri, o comunque abbiamo il diritto di non essere sempre pronte.
L’unica cosa che vorrei dire a chiunque stia pensando di abortire è di pensare al proprio bene, di mettere se stessa davanti a tutto, di informarsi, di parlarne, di non aver paura o vergogna a chiedere supporto e di prendere la decisione migliori per voi stesse.
Nessuna è sola.
Solo voi potete decidere del proprio corpo.