Perché non parliamo di femminismo africano?

Foto: Unsplash/ Eye for Ebony

Natasha Aidoo parte dai testi delle femministe africane per spiegare perché teorie e movimenti hanno bisogno di uno sguardo intersezionale, oggi ancora di più

Quando si parla di femminismo si tende a considerare quello americano ed europeo. Nel caso di femminismo nero, il primo pensiero è a quello afroamericano. Ma quello africano, del continente e del resto della diaspora, perché rimane perlopiù inesplorato? Emergono la mancanza di conoscenza e, di conseguenza, del dovuto riconoscimento delle teorie, interpretazioni e modalità di espressione specifiche caratterizzate da una continua evoluzione, quella necessaria per affrontare sfide diverse: il colonialismo, la conquista dell’indipendenza nazionale e il contesto capitalistico globale.

Se parto dalla mia prospettiva, in quanto giovane studiosa afro-europea, italiana di origini ghanesi, il mio distacco geopolitico dall’Africa si affianca a un radicamento culturale di duplice natura e a una visione afrocentrica. 

Femminismo africano può essere inteso come concetto ancorato strettamente al contesto geografico o alla condivisione di un’ideologia comune, che sottolinea l’esperienza femminile nera. Tuttavia, non credo sia il caso di preferire un’opzione rispetto all’altra, ma di conciliarle. Il punto di partenza è rappresentato dalla “matrice di dominazione” che accomuna l’esistenza femminile, ma che assume forme diverse per le donne nere.

L’importanza del contesto entra in gioco e richiede l’utilizzo di chiavi di lettura, analisi e decostruzione specifiche. Per questa ragione, i concetti di eterogeneità e decolonizzazione del sapere risultano centrali. Da un lato, non si può intendere l’esperienza delle donne nere come monolitica e riconducibile a una categoria valida per tutte, ma è necessario considerarne la particolarità, fluidità e unicità. Dall’altro, le femministe africane si rendono conto che per uscire dalla categorizzazione limitante ed eurocentrica è fondamentale un processo di critica, ridefinizione e autorappresentazione. 

Attraverso l’accesso alla produzione di conoscenza e perciò al potere, sono in grado di distanziarsi dal paradigma imposto, di essere a capo dei dibattiti emergenti e di contribuire attivamente alla scrittura di una letteratura che riflette il graduale superamento del colonialismo. Non solo politico, ma anche intellettuale. Questa emancipazione sotto forma di femminismo postcoloniale, determinata dall’opposizione alla presunta superiorità scientifica occidentale applicata anche al campo della teoria femminista, si concretizza nella diversità e ricchezza del dibattito africano, che si fonda su un approccio afrocentrico.

La Nigeria si contraddistingue per l’elaborazione di prospettive alternative. Womanism, di Chikwenye O. Ogunyemi e Mary M. Kowalowe, si basa sul confronto tra donne nere e cultura, colonialismo e altre forme di dominazione. Stiwanism, di Molara Ogundipe-Leslie e acronimo di Social Transformations Including Women, viene definito “femminismo in un contesto africano”. Motherism, di Catherine O. Acholonu, identifica nelle donne rurali il compito di nutrire la società. Femalism, di Chioma Opara, incentra il discorso femminista sul concetto di trascendenza e sul corpo della donna. Nego-feminism, di Obioma Nnaemeka, si riferisce alla negoziazione e Snail-sense feminism, di Akachi Ezeigbo, prende spunto dalla cultura indigena nazionale. Queste ultime sono specifiche al contesto nigeriano ed esaltano “inclusione di genere, complementarità e collaborazione”.

Ci sono le analisi di carattere globale, ma ancorate al territorio africano di femministe della diaspora come Ifi Amadiume e Marjorie Mblinyi. Amina Mama, una delle principali voci del femminismo africano – a capo del corso di studi di genere e direttrice dell’African Gender Institute presso l’Università di Cape Town, Sudafrica – spiega il significato del concetto: “segnala il rifiuto dell’oppressione, e un impegno a lottare per la liberazione delle donne da ogni forma di oppressione – interna, esterna, psicologica ed emotiva, socio-economica, politica e filosofica”. Patricia McFadden, sociologa e scrittrice femminista radicale, sottolinea l’aspetto essenziale del discorso intellettuale nella pratica di resistenza femminista, del genere come “strumento femminista di pensiero”, della necessità di adattare le strategie di mobilitazione e del peso della contemporaneità.

Ama Ata Aidoo, scrittrice ghanese, dimostra come sia possibile utilizzare la narrativa per esporre posizioni panafricane e femministe: attraverso la creazione di narrazioni incentrate sulla donna, transnazionali e transtemporali. Affermando che “… ancora più importante è come [le donne] dicono la loro verità” Nnaemeka esprime la rilevanza delle modalità di espressione femminile, che si caratterizzano per la molteplicità e la capacità di allargare il campo della teoria femminista, attraverso l’uso di spazi alternativi: come la scrittura creativa. Si ritiene, infatti, che la contrapposizione tra luoghi canonici di teorizzazione e la pratica femminista non abbia più validità. Per questa ragione, la legittimità di “spazi dalle molteplici consistenze”, come i media creativi, rappresenta un ulteriore raggiungimento nell’autodeterminazione postcoloniale.

Carole B. Davies dichiara che gli scritti di donne nere oltrepassano le barriereA questo discorso si connette l’urgenza di rivalutare e rivisitare il legame tra teoria e pratica. Intese come dimensioni connesse e complementari, questo permette di esaltare la funzione delle esperienze quotidiane, dell’attivismo e dello sforzo politico. L’esperienza personale risulta significativa, dato che muoversi nella realtà patriarcale richiede livelli diversi di strategie per la sopravvivenza, coscienza politica e consapevolezza delle problematiche affrontate. 

L’esperienza della donna nera (africana) è particolare per l’intreccio di tre primarie forme di oppressione: di razza, di classe e di genere. L’elemento della razza non deve essere trascurato né sottovalutato per una corretta analisi. Questa simultaneità e intersezione ha portato alla creazione del concetto di intersezionalità da parte di Kimberlé Crenshaw, la presa di coscienza della necessità di una chiave interpretativa e di indagine, che permettesse di riunire in un’unica lente l’interdipendenza e la sovrapposizione tra diverse categorie del potere.

Con lo sguardo verso il presente e il futuro, la mia attenzione è rivolta a come le donne stiano agendo e reagendo alle sfide causate dal colonialismo, dalle politiche locali e nazionali al contesto socioeconomico a livello microscopico e macroscopico, alla salvaguardia ambientale. In che modo stiano procedendo verso una visibilità concreta e fondata sul riconoscimento, sulla rappresentazione di sé e sulla partecipazione attiva ai processi decisionali.

La condizione di vulnerabilità, con cui troppo spesso si caratterizzano le donne del sud globale, deve essere decostruita, revisionata e integrata da una visione più accurata, specifica e critica. Che rifletta la complessità dell’esistenza umana, delle modalità di resistenza individuale e collettiva, che metta in luce il lavoro delle femministe del continente e della diaspora. Come enfatizza Aida Hurtado: “è solo attraverso l’integrazione della teoria femminista di una critica delle diverse forme di oppressione sperimentate dalle donne che un movimento politico delle donne può crescere, fiorire e durare”.

Riferimenti

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