1° Maggio Femminista Transnazionale

1° MAGGIO FEMMINISTA TRANSNAZIONALE: LO SCIOPERO VIVE NELLE LOTTE

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In questa data storica, che unisce le lavoratrici e i lavoratori di tutto il mondo nella lotta per i loro diritti, convochiamo – a partire dai nostri femminismi che sono una forza transnazionale e una potente memoria delle lotte – un

1° maggio Femminista Transnazionale

Continuiamo ad alzare le nostre voci con forza di fronte all’urgenza di denunciare insieme la crisi della riproduzione della vita di fronte a cui ci pone la pandemia, che precarizza e intensifica ulteriormente il lavoro produttivo e riproduttivo che facciamo noi donne, lesbiche, trans, queer e non-binarie. Per questo dobbiamo organizzarci e lottare insieme.

La pandemia globale generata dal COVID-19 ha reso ancora più visibile non solo la crisi capitalistica e patriarcale, ma anche l’urgenza di trasformare complessivamente la società e combattere le sue disuguaglianze. Milioni di lavoratrici e lavoratori durante questa pandemia continuano a lavorare nei magazzini logistici senza protezione e con salari bassi. Le condizioni di lavoro delle e dei migranti diventano ancora più precarie: tanto le misure che di fatto mantengono irregolari le e i migranti, quanto quelle che li/le regolarizzano in maniera selettiva, sono ugualmente funzionali a poterli/e mettere a lavoro in condizioni di maggiore sfruttamento. Milioni di operatrici sanitarie e di operaie lavorano senza sosta, con salari bassi e in condizioni inadeguate, mettendo a rischio la loro vita ogni giorno. Migliaia di lavoratrici domestiche vengono licenziate senza ricevere alcun sussidio. Milioni di donne sono sovraccaricate di lavoro domestico e milioni di lavoratrici informali, delle economie popolari e precarie si ritrovano senza lavoro. La crisi pandemica mostra chiaramente che i lavori necessari per la riproduzione sociale sono i più sfruttati e precari, svolti il più delle volte da donne e migranti.

Allo stesso tempo, l’attuale isolamento dimostra che migliaia di donne, lesbiche, e trans non possono rimanere a casa e proteggere la loro salute perché devono continuare a lavorare. Coloro che possono rimanere a casa, si vedono obbligate dal sistema patriarcale ad assistere e prendersi cura degli anziani e dei bambini, aumentando ancora di più il loro lavoro domestico per il quale non c’è mai stato né un limite di ore né una retribuzione. Per molte, le case non sono luoghi sicuri perché significa essere esposte alla violenza dei propri partner ogni giorno. I femminicidi e la violenza contro le donne e le persone LGBTQI+ si sono intensificati con questa crisi, la cui gestione securitaria omette questa realtà. La crisi invisibilizza anche il ruolo nella società delle donne diversamente abili, la cui cura e vita quotidiana sono soggette a ritmi molto particolari.

Non vogliamo che il futuro assomigli a questo presente e ci rifiutiamo di ritornare alla normalità neoliberale, la cui insostenibilità si rivela in modo indiscutibile in questa crisi. Lottiamo per porre fine all’estrattivismo, agli allevamenti intensivi e alla produzione industriale di alimenti su larga scala, che subordinano tutte le specie viventi e la terra ai profitti del capitale.

Oggi stiamo combattendo per sopravvivere nella pandemia, ma ci stiamo anche organizzando per affrontare le conseguenze a lungo termine che questa avrà sulle condizioni economiche e di vita di milioni di persone in tutto il mondo.

Non vogliamo uscire da questa “emergenza” ancora più indebitate e precarie! Chiediamo che la ricchezza sia utilizzata per garantire che nessuna persona sia lasciata senza entrate economiche o costretta a indebitarsi per sopravvivere. La ricchezza dovrà servire per sostenere la vita e non più per essere appropriata da una minoranza privilegiata. Chiediamo che l’accesso al sistema sanitario sia garantito gratuitamente e che i diritti alla salute mentale, sessuale e (non) riproduttiva siano riconosciuti come diritti essenziali, perché il confinamento obbligatorio non può essere una scusa per impedirci di decidere sul nostro corpo e garantire la nostra autonomia.

Nei quartieri popolari si stanno organizzando ruidazos (azioni rumorose) contro i femminicidi e reti di autodifesa contro la violenza maschile. Nelle comunità, le donne indigene, che hanno sempre lottato contro la devastazione ambientale, si trovano ad affrontare uno Stato che approfitta dell’isolamento per realizzare progetti estrattivi. In ogni carcere, le e i detenute/i denunciano le condizioni disumane di detenzione e la mancanza di protezione. Ovunque, le e i migranti si ribellano contro il sovraffollamento dei centri di detenzione e rivendicano i loro documenti, senza i quali la loro vita, ancor più con questa pandemia, è soggetta a condizioni di maggiore sfruttamento e violenza. Nei magazzini e nelle fabbriche si moltiplicano gli scioperi che richiedono che si continuino solo le attività essenziali e in condizioni dignitose.

Lo sciopero femminista è stato negli ultimi anni lo strumento che ha unito le nostre lotte a livello globale e che ci ha permesso di rifiutare la violenza patriarcale nella sua dimensione strutturale: nelle case, nelle strade, nei luoghi di lavoro, attraverso le frontiere. Nello sciopero dei passati 8 e 9 marzo abbiamo invaso le strade con la nostra potenza femminista, siamo state milioni in tutto il mondo. Durante la pandemia e nei prossimi mesi il processo di insubordinazione alimentato dallo sciopero femminista deve convertire il nostro lavoro riproduttivo in un campo di lotta per contestare la divisione sessuale e razzista del lavoro e per esigere la socializzazione del lavoro di cura. Vogliamo che sia data totale attenzione alla salute e che i servizi essenziali siano rafforzati.

Pretendiamo che tutti i lavori non indispensabili a sostenere la vita siano sospesi: i lavori non necessari devono essere interrotti! Vogliamo la fine della subordinazione, dello sfruttamento, della precarizzazione. Pretendiamo anche che si forniscano le protezioni necessarie contro il virus per i lavori essenziali.

Vogliamo sovvertire tutto per mettere fine alla violenza patriarcale e razzista della società neoliberale, per poter abortire in modo sicuro, libero e gratuito, per non indebitarci ancora di più, per poter disporre delle nostre libertà. Lo sciopero femminista globale ci ha insegnato che quando siamo unite siamo forti e ora più che mai dobbiamo alzare le nostre voci nella stessa direzione per evitare la frammentazione che la pandemia sembra imporci.

Vogliamo un’uscita femminista transnazionale dalla crisi per non tornare più a una normalità fatta di disuguaglianze e violenze. Nella giornata internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori grideremo tutta la nostra rabbia contro la violenza di una società che ci sfrutta, opprime e uccide.

Il Primo Maggio diciamo più che mai che le nostre vite non sono al servizio dei loro profitti.

Nella giornata internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori affermiamo ancora una volta che la società può essere organizzata su nuove basi, che è possibile una vita senza violenza patriarcale e razzista e libera dallo sfruttamento.

Feministas Transfronterizas

Evento fb transnazionale

Evento fb Nudm

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???? FUOCHI ACCESI! ????


È ufficialmente partita la cucina di POP WOK – mensa femminista!
Partito il recupero degli alimenti, la preparazione e la distribuzione
Ci rivolgiamo alle tantissime donne, persone trans e sex workers che ancora più duramente vivono gli effetti dell’emergenza sanitaria
Grazie per l’affetto e il sostegno che ci state mandando in questi giorni!

Contattateci per avere info o dare una mano!
Potete scrivere direttamente a questa pagina o a questi contatti:

Marghe 3314113727
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O sarà solidale e transfemminista, o non sarà!

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Alle partigiane e partigiani di ieri e di oggi

25 aprile 2020 

ALLE PARTIGIANE E AI PARTIGIANI DI IERI E DI OGGI.
NESSUNA/O E’ LIBERA/O SE NON SIAMO TUTTE/I LIBERE/I

La nostra lotta resistente, femminista e transfemminista, mette al centro il corpo, le relazioni tra i corpi e ciò che raccontano e gridano.
Questo 25 aprile, per la prima volta i nostri corpi non saranno in piazza.
Ma in queste settimane sono i nostri corpi a urlare: quelli delle donne picchiate, violentate, uccise in casa dal proprio compagno durante la quarantena; di quelle che chiedono invano di abortire; delle lavoratrici sfruttate nelle RSA, negli ospedali, nel lavoro domestico e di cura, delle cassiere della grande distribuzione.

Siamo convinte che l’unica memoria possibile sia quella politica, che non indugia nelle sterili celebrazioni ma vive nelle pratiche quotidiane, nel cambiamento che possiamo portare nel mondo. Le parole Resistenza, Libertà e Liberazione non sono retorica, ma rappresentano la capacità di riconoscere, anche dove è più invisibile, ogni forma di oppressione e abuso.

Il Femminismo è un lavoro ostinato di liberazione quotidiana, di gesti di resistenza e non di azioni eclatanti. E’ un lavoro di analisi e di demistificazione.
Perciò il Femminismo é Resistenza e Liberazione; da quei sistemi che si basano sulla violenza, sulla colonizzazione dei corpi e dei territori. Resistenza nella difesa del loro sfruttamento e nella nostra autodifesa personale.

Portiamo con noi tutte quelle partigiane ricordate confusamente, o dimenticate. Non solo staffette, infermiere, madri coraggio, ma anche combattenti attive della lotta armata, comandanti ribelli e indomite: vivono in noi nelle parole, nelle pratiche e nella potenza emotiva che ci lega.
Per noi femministe, il Fronte esiste ancora e varia di volta in volta: è la violenza strutturale e di genere verso il nostro corpo e verso la nostra salute, a scuola, nei luoghi di lavoro; è la violenza dei tribunali e dei confini. Su questa barricata quotidiana, noi donne, donne trans, donne migranti agiamo i valori della Resistenza ogni volta che un potere, un padrone, una frontiera ci toglie libertà o possibilità di scegliere. Scegliamo il conflitto e lo facciamo insieme, con la forza della creatività, del divertimento e della passione, perché il desiderio rivoluzionario è anche questo: solidarietà, sorellanza, comunità e gioia.

La linea della Resistenza, anche qui a Firenze, ci ha chiamate in causa in più occasioni. Ogni volta che una donna si è rivolta a noi, in cerca di sostegno o aiuto, per sfuggire a una situazione di violenza domestica; durante le irruzioni al consiglio regionale della Toscana, per denunciare i finanziamenti della Regione alle associazioni antiabortiste, che ben si inseriscono in quel processo di demolizione della sanità pubblica e laica i cui effetti drammatici sono evidenti adesso in tutta la loro brutalità.

La retorica dell’emergenza ci condanna tutte. Sappiamo infatti che in tutto il mondo è messo gravemente a rischio il diritto all’aborto, giudicato illegittimamente servizio non essenziale, come invece sancisce in Italia la 194. Assistiamo in questi giorni ad un nuovo colpo di Stato in Slovenia; in Ungheria il neo dittatore Orban emesso una legge per vietare il cambio di sesso alle persone transgender sui documenti di identità.
In Polonia, approfittando del lockdown, sono state discusse delle sconvolgenti proposte di legge per vietare l’aborto anche nei casi di incesto, stupro o malformazioni fetali gravi, temporaneamente congelate solo grazie alla protesta mediatica delle femministe.

Abbiamo sentito forte il richiamo delle strade, pur non potendo stare insieme.
E’ nelle strade che va in scena la marginalità e l’esclusione di tutte quelle donne, persone trans e lavoratrici sessuali dimenticate dalle forme di sussidio pubblico. Per questo abbiamo deciso di auto-organizzare, a partire da questi giorni, POP-WOK, una mensa femminista e popolare, con la quale fornire dei pasti pronti a tutte coloro che ne faranno richiesta. Non assistenzialismo o volontariato, ma pratica di sorellanza attiva che ci avvicina a chi è lasciata indietro, a cui noi scegliamo di camminare accanto. Sorellanza che riesce a contagiare, e che ha portato tante associazioni e realtà del territorio ad dare vita insieme a noi al progetto POP WOK.

Sperimentiamo in queste settimane un controllo sociale soffocante. Siamo onsapevoli dell’importanza della responsabilità individuale, che riconosciamo come politica e che è la stessa che ci spinge a lottare tutti i giorni, sappiamo tuttavia che lo stato di emergenza è una condizione nella quale la sospensione delle libertà ha un inizio ma difficilmente una fine.
Non siamo disposte a chiudere gli occhi di fronte alle disuguaglianze che esplodono, agli abusi di potere, alle costrizioni ingiustificate delle libertà e dei diritti individuali, politici, di espressione e di azione.

E’ accanto alle/i migrant* che annegano in mare davanti ai nostri porti, dichiarati “non sicuri”, che riconosciamo la nostra Resistenza, a quell* sul territorio che chiedono il permesso di soggiorno per uscire dall’invisibilità; siamo accanto alle madri e alle mogli di chi è detenuto/a, nei reparti femminili delle carceri in rivolta, accanto alle recluse alle quali è da sempre destinato un trattamento ancor più inumano e degradante.

Dedichiamo questa giornata alle partigiane di oggi, a tutte quelle che non si sono arrese, che hanno scelto da che parte stare e che combattono un dominio militare, giudiziario e poliziesco feroce: a Eddi, compagna femminista e anticapitalista schierata al fianco della resistenza curda e condannata ingiustamente a due anni di sorveglianza speciale; a Nicoletta Dosio, da poco tornata a casa dal carcere delle Vallette, dove è stata richiusa a settant’anni, a causa della sua militanza NO TAV.

Mentre ricordiamo Orso, morto combattendo, come nostro compagno e partigiano, lottiamo al fianco di Eddi e Nicoletta, condannate entrambe per una presunta “pericolosità sociale”.
Non è la morte a definire le nostre azioni ma la vita. La vita di queste donne è l’esempio di quanto ancora la resistenza, la liberazione e la libertà non siano parole vuote ma una scelta di campo, un grido politico, una pratica collettiva costante

NON UNA DI MENO FIRENZE
 

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BUON 25 Aprile

BUON 25 APRILE

Libertà e R/esistenza

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Pop Wok Mensa Femminista

COSA BOLLE IN PENTOLA? E’ PRONTA LA MENSA POPOLARE FEMMINISTA!

Abbiamo mischiato insieme un pizzico di solidarietà, molta sorellanza e molta cura, il desiderio di camminarci accanto in questo difficile periodo di emergenza sanitaria… da questi ingredienti nasce l’esperimento di POP WOK!

#Firenze ci rivolgiamo a tutte coloro che non hanno avuto la possibilità di accedere a forme di sussidio statale. Donne, persone trans, sex workers che vivono ancora più duramente gli effetti della crisi

Abbiamo fatto rete con associazioni del territorio e con l’unità di strada, così insieme saremo in grado di garantire almeno un pasto a settimana, ma progettiamo di aumentare in corso d’opera!

Volete contribuire a questo progetto? Sabato 25 e domenica 26 potete partecipare a Antidoto sonoro: tutto il ricavato del crowdfunding andrà a sostenere POP WOK!
https://www.facebook.com/events/234073747704985/

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O sarà solidale e transfemminista, o non sarà!

Cat Cooperativa Sociale Arci Firenze Circolo ARCI fra i Lavoratori di Porta al Prato zenzero_biocatering Corrente Alternata – Sguardi precari sul genere e il lavoro

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???? MANIFESTO FEMMINISTA TRANSNAZIONALE

???? MANIFESTO FEMMINISTA TRANSNAZIONALE
Per uscire insieme dalla pandemia e cambiare il sistema ????

Le ultime settimane di quarantena non fermano l’articolazione delle lotte femministe e transfemministe globali: quattro anni di scioperi femministi e transfemministi hanno già mostrato che la nostra mobilitazione attraversa confini e ci continua ad unire in un’unica grande marea ???????? ????

Non ci arrendiamo all’isolamento imposto dalla pandemia e dalla crisi e alle difficoltà materiali quotidiane che viviamo come donne e persone LGBQTIA*. Con questo manifesto continuiamo ad organizzarci, a generare iniziativa, presa di parola, forme di mobilitazione e azioni collettive femministe e trans-femministe, non solo per affrontare questa pandemia ma anche e soprattutto per non tornare più a una normalità fatta di oppressione, diseguaglianza e sfruttamento.
Per uscire dalla crisi insieme sovvertendo l’esistente e riscrivendo il futuro che vogliamo. Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema.

Pubblichiamo di seguito il manifesto femminista transnazionale scritto e condiviso da Transfrorentizas, uno spazio transnazionale attraversato da collettive, movimenti, organizzazioni e reti femministe, transfemministe, antipatriarcali e antirazziste di cui, come NON UNA DI MENO, facciamo parte. Uno spazio in movimento, dinamico, aperto e in espansione attraverso il quale cerchiamo di articolare la nostra pluralità di discorsi e pratiche per intrecciare le nostre lotte e le lotte di tutte quelle donne e persone LGBTQIA* che ogni giorno si ribellano alla violenza patriarcale. Uno spazio di lotta contro patriarcato, razzismo e sfruttamento e ogni forma di violenza imposta dall’organizzazione neoliberale della società per affermare un programma e un processo di autodeterminazione collettivo globale che costruisce alternativa alla crisi.

Qui il pdf del manifesto in italiano: https://nonunadimeno.files.wordpress.com/…/manifesto_femmin…

Qui il link al manifesto in inglese, catalano, spagnolo, francese e tedesco:

https://tinyurl.com/ydcuvjrp

¡Arriba las y les que luchan!
#FeministasTransfronterizas
#lottotuttiigiorni
grazie ad Athena per le illustrazioni

 

 

 

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Noi stiamo con Eddi

Non una di meno Firenze esprime solidarietà alla nostra compagna Edgarda Maria Marcucci, Eddi, che tra il 2017 e il 2018 ha combattuto in Siria a fianco delle Unità di difesa delle donne – l’Ypj – in sostegno della causa curda, e quindi per il Tribunale di Torino è «socialmente pericolosa».
Per questo il decreto, emesso lo scorso 17 marzo, applica la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per i prossimi due anni, esprimendo la vera natura di uno Stato patriarcale che con una mano continua a vendere armi ai jihadisti, e con l’altra cerca di silenziare il dissenso perché è questo che hanno fatto con Eddi.
Unica donna su cinque imputati, è stata la sola ad essere punita con misure che discendono per via diretta dal codice Rocco del regime fascista e che andranno a limitare moltissimo la sua libertà.
Eddi è stata accusata di pericolosità perché, oltre ad aver combattuto in Siria contro l’Isis, ha manifestato al consiglio comunale di Torino e ha partecipato a due presidi pacifici e una manifestazione del 1° maggio.
Eddi infatti è anche un’ attivista NO TAV e il tribunale di Torino è da anni il principale laboratorio di repressione di una lotta che dura da 30 anni.

In una società che ci obbliga alla sospensione del pensiero, Eddi così come il partigiano Lorenzo Orsetti sono per noi il simbolo della lotta verso la realizzazione di un mondo diverso di giustizia sociale, mutualismo, che si basa sulle potenzialità dell’individuo e della collettività e dove le diversità sono valorizzate.
Quando noi femministe diciamo “ci muove il desiderio”, vogliamo rivendicare il potere di sovversione di questo messaggio, considerato pericoloso per le autorità, ma che rappresenta per noi oggi l’unica alternativa per costruire un mondo migliore dove ognuno di noi possa essere inclus*
Per questo per noi la libertà di Eddi rappresenta la libertà di tutte noi, dei nostri desideri e delle aspirazioni.

NON UNA DI MENO FIRENZE RIVENDICA LA LOTTA DI EDDI ED ESIGE LA SOSPENSIONE IMMEDIATA DI QUESTE MISURE DA CONFINO FASCISTA

JIN JIYAN AZADI

Noi stiamo con chi combatte l’lsis
Non Una di Meno – Torino
NON UNA DI MENO

#IoRestoaCasa #NonRestoInSilenzio #IoStoConEddie #SupportYpj #RiseUp4Rojava #StandUp4Rojava
#nonunadimenofirenze
#IoRestoaCasa #NonRestoInSilenzio #IoStoConEddie #SupportYpj #RiseUp4Rojava #StandUp4Rojava
#nonunadimenofirenze

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17 Aprile: Giornata di Sostegno ai Prigionieri Palestinesi

A FIANCO DELLE PRIGIONIERE PALESTINESI
IN LOTTA PER LA LIBERTÀ

Oggi ci sono 43 donne e ragazze palestinesi incarcerate nelle carceri israeliane. Molte di loro soffrono di problemi di salute e la pandemia globale di COVID-19 rappresenta una minaccia significativa, specialmente perché sono tenute in condizioni difficili nella prigione di Damon, che precedentemente era una scuderia per cavalli. Le donne palestinesi dietro le sbarre israeliane rappresentano tutti gli aspetti della società palestinese: parlamentari, leader, attiviste, studentesse superiori e universitarie, giornaliste, fotografe, blogger, assistenti sociali, operatrici sanitarie, madri, badanti, e molto altro. Moltissime le ragazze, anche minorenni.
Nel corso della storia della causa palestinese, le donne palestinesi sono state al centro del movimento di liberazione in tutti gli aspetti della lotta e storicamente hanno svolto un ruolo particolarmente significativo nel movimento de* prigionier* palestinesi, conducendo scioperi della fame e continuando la lotta per la libertà.

• Israa Jaabis – di Gerusalemme occupata, gravemente ustionata; condannata a 11 anni
• Marah Bakir – da Gerusalemme occupata, condannata a 8,5 anni (all’età di 16 anni)
• Malak Suleiman – di Gerusalemme occupata, condannata a 10 anni (all’età di 17 anni)
• Shorouq al-Badan – detenuta senza accusa o processo sotto detenzione amministrativa
• Shatha Hassan – Presidente del consiglio studentesco Bir Zeit, detenuta senza accusa o processo sotto detenzione amministrativa
• Bushra al-Tawil – giornalista palestinese di Ramallah, detenuta senza accusa o processo sotto detenzione amministrativa
• Khalida Jarrar – di Ramallah, arrestata in attesa di processo
• Ranwa Shinawi – Palestina occupata del ’48, arrestata in attesa di processo
• Inas Asafreh – di al-Khalil, arrestata in attesa di processo
• Mays Abu Ghosh – del campo profughi di Qalandiya, arrestata in attesa di processo
• Samah Jaradat – di Ramallah, arrestata in attesa di processo
• Azhar Qasem – di Qalqilya, arrestata in attesa di processo
• Suheir Salimiyeh – di al-Khalil, arrestata in attesa di processo
• Suzan Moubayed – di Gerusalemme occupata, detenuta in attesa di processo
• Halimeh Khandaqji – di Ramallah, arrestata in attesa di processo
• Balsam Sharaeh – di al-Lydd, Palestina occupata del ’48, arrestata in attesa di processo
• Nawal Fetheya – di Gerusalemme occupata, arrestata in attesa di processo
• Aya Khatib – Palestina occupata del ’48, detenuta in attesa di processo
• Shorouq Dwayyat – di Gerusalemme occupata, condannata a 16 anni
• Shatila Abu Ayyad – Palestina occupata del ’48, condannata a 16 anni
• Maysoun Musa Jabali – di Shawahreh (Betlemme), condannata a 15 anni
• Aisha al-Afghani – di Gerusalemme occupata, condannata a 15 anni
• Nurhan Awad – del campo profughi di Qalandiya, condannata a 10 anni
• Fadwa Hamadeh – di Gerusalemme occupata, condannata a 10 anni
• Amani al-Hashim – di Gerusalemme occupata, condannata a 10 anni
• Rawan Abu Ziyada – di Ramallah, condannata a 9 anni
• Nisreen Hasan – di Haifa, Palestina occupata del ’48, condannata a 6 anni
• Helwa Hamamreh – di Husan (Betlemme), condannata a 6 anni
• Amal Taqatqa – di Beit Fajjar (Betlemme), condannata a 7 anni
• Ansam Shawahneh – di Qalqilya, condannata a 5 anni
• Tasneem al-Assad – di Lakia, Palestina occupata del ’48, condannata a 5 anni
• Ayat Mahfouz – di al-Khalil, condannata a 5 anni
• Rahmeh al-Assad – di Lakia, Palestina occupata del ’48, condannata a 4,5 anni
• Sabreen Zbeedat – di Sakhnin, Palestina occupata del ’48, condannata a 50 mesi
• Jihan Hashima – di Gerusalemme occupata, condannata a 4 anni
• Asiya Kaabneh – di Duma (Nablus), condannata a 43 mesi
• Bayan Faraoun – di Gerusalemme occupata, condannata a 40 mesi
• Rawan Anbar – di Ramallah, condannata a 3 anni
• Amina Odeh Mahmud- di Gerusalemme occupata, condannata a 33 mesi
• Samar Abu Thaher – di Gaza, condannata a 2,5 anni
• Fawzieh Hamad Qandil – di Ramallah, condannata a 20 mesi
• Wafa Mahdawi – di Alshweika (Tulkarem), condannata a 18 mesi
• Rawan al-Samhan – di al-Khalil, condannata a 18 mesi

Solidità e resistenza: le donne prigioniere palestinesi affrontano la repressione*

* Estratto dell’articolo della coordinatrice internazionale di Samidoun, Charlotte Kates. È stato originariamente pubblicato per la Giornata internazionale della donna all’International Review of Contemporary Law , la pubblicazione dell’International Association of Democratic Lawyers .

“In prigione, sfidiamo la guardia carceraria abusante insieme, con la stessa volontà e determinazione a spezzarla in modo che non ci spezzi… La prigione è l’arte di esplorare le possibilità; è una scuola che ti addestra per risolvere le sfide quotidiane usando i mezzi più semplici e creativi, che si tratti della preparazione del cibo, della riparazione di vecchi vestiti o della ricerca di un terreno comune in modo che tutte possiamo resistere e sopravvivere insieme. Per i palestinesi, la prigione è un microcosmo della lotta molto più ampia di un popolo che rifiuta di essere schiavizzato nella propria terra e che è determinato a riconquistare la propria libertà”. – Khalida Jarrar, femminista palestinese incarcerata, e parlamentare del PFLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) [1]
L’incarcerazione costituisce un fronte importante per il controllo coloniale israeliano diretto contro la popolazione palestinese. Tuttavia, l’immagine del prigioniero palestinese è in gran parte maschile; in effetti, la grande maggioranza dei prigionieri politici palestinesi sono uomini. Tuttavia, le donne prigioniere politiche nella Palestina occupata hanno svolto un ruolo importante nella resistenza dietro le sbarre, riflettendo il ruolo delle donne palestinesi nella loro lotta di liberazione nazionale. Hanno incontrato dure torture, violenze di genere e repressione attraverso le politiche sistematiche delle forze di occupazione israeliane e sono state spesso prese di mira per la reclusione a causa dei loro ruoli guida in varie forme di resistenza all’occupazione israeliana.
Tra il 1967 e il 2017, circa 10.000 donne palestinesi sono state incarcerate dalle autorità israeliane per motivi politici e/o per il loro coinvolgimento nella resistenza palestinese. Questa cifra comprende le donne palestinesi che detengono la cittadinanza israeliana, le palestinesi di Gerusalemme e le donne palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana diretta in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Attualmente ci sono 43 donne palestinesi detenute come prigioniere politiche e detenute nelle carceri israeliane, su un totale di circa 5.000 prigionieri politici palestinesi. [2]

Flagranti violazioni del diritto internazionale
Quattro di queste donne sono incarcerate in detenzione amministrativa – prigione senza accusa o processo basato su un “fascicolo segreto”. Il contenuto di questo file segreto non può essere divulgato ai loro avvocati difensori o ai detenuti stessi. Ci sono circa 500 prigionieri palestinesi attualmente detenuti in detenzione amministrativa.
Tutte le donne prigioniere politiche palestinesi sono detenute nella prigione di Damon, una prigione israeliana all’interno della “linea verde” che delimita i confini dell’armistizio del 1948 dello stato israeliano. Ciò significa che le donne palestinesi – come la maggior parte dei prigionieri politici palestinesi – sono detenute al di fuori dei territori occupati del 1967 in Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme est, in violazione diretta dell’articolo 76 della Quarta Convenzione di Ginevra, che impone che una potenza occupante debba detenere i residenti di un territorio occupato all’interno di quel territorio occupato stesso [3] .

Tortura e maltrattamenti
Questa violazione ha molteplici e significativi effetti materiali sulla vita delle donne prigioniere palestinesi. Per consentire ai palestinesi della Cisgiordania o della Striscia di Gaza di visitare i loro familiari imprigionati, devono ottenere permessi speciali dall’amministrazione israeliana. Questi permessi vengono spesso negati per motivi di “sicurezza”. Quando questi permessi sono concessi, possono essere revocati in qualsiasi momento. Ciò significa che, in pratica, alle donne palestinesi possono essere spesso negate le visite familiari, anche dai loro coniugi e figli. [4]
Le donne palestinesi detenute subiscono abitualmente torture e maltrattamenti quando vengono arrestate e detenute, in particolare durante il processo di interrogatorio. Come riferisce Addameer Prisoner Support and Human Rights Association (una ONG palestinese che fornisce rappresentanza legale ai palestinesi detenuti):
“La maggior parte delle donne prigioniere palestinesi sono sottoposte a qualche forma di tortura psicologica e maltrattamenti durante il processo di arresto e detenzione, tra cui varie forme di violenza sessuale che si verificano come percosse, insulti, minacce, perquisizioni corporali e molestie sessualmente esplicite. All’arresto, le donne detenute non vengono informate su dove vengono portate e raramente vengono spiegate i loro diritti durante l’interrogatorio. Queste tecniche di tortura e maltrattamenti sono utilizzate non solo come mezzo per intimidire le detenute palestinesi, ma anche come strumenti per umiliare le donne palestinesi e costringerle a confessare”. [5]
La tortura e i maltrattamenti non sono il solo scopo degli interrogatori e dei soldati israeliani maschi. Mentre le forze armate israeliane spesso pubblicizzano il loro impegno per la parità di genere, per i palestinesi sotto occupazione, ciò significa semplicemente che i meccanismi di oppressione e controllo sono condivisi. Non forniscono soccorso alle donne palestinesi arrestate e detenute. Come osservato da Addameer, “le donne soldato israeliane dispiegano metodi violenti di controllo contro uomini e donne palestinesi nel tentativo di cercare rispetto e riconoscimento da parte dei soldati maschi e dei loro superiori”. [6]

Il “comitato Erdan” prende di mira i diritti dei detenuti e delle detenute
Mentre queste circostanze e molte altre sono state regolarmente documentate per decenni da organizzazioni palestinesi, internazionali e persino israeliane per i diritti umani e sostenitori della giustizia, le donne prigioniere palestinesi si trovano ad affrontare un clima di repressione intensificato e duri tentativi di recuperare quei diritti che hanno ottenuto attraverso anni di lotta dentro e fuori dalla prigione. Gilad Erdan, ministro della pubblica sicurezza del governo israeliano di Benjamin Netanyahu, che supervisiona il servizio penitenziario israeliano, ha presieduto una commissione nota come “comitato Erdan” per indagare sui “lussi” di cui godono i prigionieri palestinesi. [7] Molte di queste disposizioni di base, come l’accesso ad alcuni programmi di istruzione a distanza e cucine o canali televisivi separati, erano state ottenute solo attraverso anni di scioperi della fame e campagne correlate.
Molti degli sforzi del “comitato Erdan” si sono concentrati in particolare sulle condizioni delle donne prigioniere palestinesi. Lo stesso Erdan ha dichiarato che “dobbiamo peggiorare le condizioni” e ridurre le condizioni di vita al “minimo necessario”, chiarendo l’intento odioso delle politiche. [8] Una di queste azioni fu l’implementazione della videosorveglianza nel cortile della prigione di HaSharon, una delle due prigioni israeliane (entrambe, in particolare, al di fuori dei territori occupati del 1967 in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra) che ospitavano prigioniere politiche palestinesi. [9]
Queste telecamere di sorveglianza sono state attivate nelle cucine collettive utilizzate dalle donne detenute, nelle aree della lavanderia e nelle aree di preghiera, nonché nei cortili ricreativi. Tutte le prigioniere hanno obiettato fortemente sul posizionamento delle telecamere, soprattutto sapendo che le guardie di sicurezza e i funzionari maschi avrebbero potuto vedere il filmato. Per le donne religiosamente osservanti, questi spazi sono ora aree pubbliche per ulteriori controlli, costringendole a coprirsi. Di conseguenza, le donne nella prigione di HaSharon hanno rifiutato di andare a ricreazione per oltre due mesi e hanno chiesto la rimozione delle telecamere. Diversi anni prima, le telecamere erano state installate ma erano state coperte e disattivate dopo una vasta campagna di protesta. Le telecamere di sorveglianza non sono le uniche misure repressive imposte alle prigioniere; Il comitato di Erdan ha anche imposto restrizioni sull’accesso all’acqua per le prigioniere palestinesi, limitando il numero di docce che potevano fare, un’altra questione di particolare preoccupazione per le donne palestinesi detenute. Migliaia di libri, che sono stati donati o regalati da membri della famiglia, sono stati confiscati dalla sezione femminile della prigione. [10]
In risposta allo sciopero della fame, la repressione nella prigione di HaSharon è aumentata. Ad un certo punto, l’acqua calda è stata completamente tagliata alla sezione femminile, le assegnazioni di carne e verdure sono state significativamente ridotte e multe significative, pari a centinaia di dollari, sono state imposte alle prigioniere palestinesi come forma di punizione. Alla fine, tutte le donne prigioniere sono state trasferite in massa nella prigione di Damon, un’azione considerata decisamente come una forma più elevata di punizione e repressione.

Dure condizioni di confinamento
Entrambe le prigioni sono note per le condizioni repressive, ma Damon è particolarmente dura, in parte a causa della sua storia come stalla per cavalli, ma anche per la sua distanza dalla maggior parte dei tribunali militari israeliani, dove le donne prigioniere palestinesi affrontano udienze multiple o hanno audizioni in corso. Come osservato dalla rete di solidarietà dei prigionieri palestinesi di Samidoun, “Le donne detenute hanno spesso citato l’uso della” bosta “, un veicolo usato per trasportare i prigionieri, dove sono incatenati durante il viaggio che spesso impiega ore e ore a causa di ripetute soste, controlli di sicurezza e altri ritardi.” [11]
Il “bosta”, chiamato per la sua somiglianza con un camion della posta, è costruito con panche di metallo. Le donne palestinesi sono spesso riunite con prigioniere israeliane che affrontano accuse penali, che a loro volta prendono di mira le detenute palestinesi con insulti e maltrattamenti razziali. Le donne palestinesi detenute hanno ripetutamente riferito che gli è stata negata la possibilità di usare il bagno e il veicolo prende una strada tortuosa che rende quello che dovrebbe essere un breve viaggio diretto una dura prova di un’ora. [12]
Come documentato dall’avvocato palestinese e difensore dei diritti umani Sahar Francis:
“Le donne detenute soffrono di negligenza medica sistematica. Nonostante ci sia una clinica medica in ogni prigione, il trattamento fornito è in gran parte insufficiente per soddisfare le esigenze delle prigioniere palestinesi. L’amministrazione penitenziaria non fornisce adeguati articoli per l’igiene personale, costringendo le donne detenute ad acquistare questi oggetti dagli spacci della prigione con i propri soldi… Il parto all’interno del carcere è particolarmente disumano. Le mani e i piedi della prigioniera incinta vengono incatenati sulla strada per l’ospedale, e vengono temporaneamente allentati solo durante la fase finale del travaglio (il parto effettivo), dopo il quale vengono immediatamente rimessi a posto… Le donne detenute vengono anche punite con sanzioni che includono l’accesso limitato ai bagni durante le mestruazioni.” [13]

La Resistenza delle donne palestinesi
Le prigioniere politiche palestinesi hanno trovato il modo di continuare la loro resistenza e lottare dietro le sbarre. Nahla Abdo scrive nel suo importante libro che studia la vita delle donne palestinesi incarcerate:
“La resistenza, la lotta e la lotta contro l’oppressione non si fermano alle porte delle carceri o dei campi di detenzione. L’impegno per la libertà, l’amore per la patria e la determinazione a lottare contro l’oppressione – elementi che stimolano le donne combattenti e le spingono a resistere – continuano ad essere le forze trainanti per la loro sopravvivenza in carcere. I metodi di resistenza usati dalla maggior parte delle detenute politiche femminili includono scioperi della fame, rifiuto di lasciare le loro celle, disobbedienza agli ordini delle guardie carcerarie, persistere nel fare richieste, ecc. La resistenza, in altre parole, può essere attiva e diretta oppure passiva. L’aumento della coscienza sociale e politica fornito dalle generazioni più vecchie e più giovani di detenuti politici ai nuovi arrivati è comune anche a molti detenuti politici a livello globale. L’educazione alla resistenza nelle carceri, espressa in incontri educativi formali, seminari, workshop e lezioni di consapevolezza sull’alfabetizzazione è praticata anche dalle detenute politiche femminili”.[14]
Nell’aprile 1970, le donne prigioniere palestinesi nella prigione di Neve Tirza hanno lanciato uno dei primi scioperi collettivi della fame nel movimento dei prigionieri palestinesi quando hanno rifiutato il cibo per nove giorni. Hanno chiesto l’accesso alle forniture sanitarie delle donne, nonché la fine di percosse e isolamento. [15] Le donne palestinesi sono state costantemente coinvolte in scioperi della fame e azioni di protesta in tutte le carceri. Questi includono scioperi specifici di donne detenute nel 1985, 2004 e 2019, nonché in diverse altre occasioni. Queste lotte hanno ispirato campagne femministe internazionali per sostenere gli scioperi. [16]

Negazioni del diritto all’istruzione
Le ragazze palestinesi sono colpite da ordini militari che indirizzano i casi dei minori palestinesi ai tribunali militari, che fondamentalmente mancano di diritti e protezioni fondamentali per un processo equo, un sistema completamente diverso da quello usato per i minori israeliani. Una volta imprigionati, i minori palestinesi ricevono un massimo di 20 ore settimanali di istruzione, rispetto alle 35 ore nelle scuole esterne, ma almeno il 25% di loro non ha ricevuto affatto istruzione. D’altra parte, i minori detenuti israeliani ricevono un programma educativo completo che li prepara a superare l’esame di diploma del liceo nazionale. [17]
Nel 2018, le ragazze palestinesi nella prigione di HaSharon non hanno ricevuto istruzione per diversi mesi, spingendo le donne palestinesi, guidate dalla femministe di spicco Khalida Jarrar, detenuta politica, avvocato e deputata, a sviluppare un programma di educazione auto-organizzato. Questo programma comprendeva la preparazione per gli esami di scuola superiore in matematica, scienze e lingue per le ragazze minori, nonché sui diritti umani e l’educazione al diritto internazionale, compreso lo studio del CEDAW (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna). [18] I funzionari delle carceri israeliane hanno tentato di interrompere le lezioni, facendo sì che le prigioniere palestinesi rifiutassero i pasti e lanciassero proteste per proteggere il loro diritto all’istruzione [19].

Note:
[1] Khalida Jarrar, “Foreword,” in Ramzy Baroud, These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons. Clarity Press, 2020
[2] Addameer Prisoner Support and Human Rights Association, “Imprisonment of Women and Girls”. Novembre 2018, http://www.addameer.org/the_prisoners/women
[3] Convenzione (IV) relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra. Ginevra, 12 agosto 1949, Art. 76
https://ihl-databases.icrc.org/…/6756482d86146898c125641e00… [4] Public Committee Against Torture in Israel and World Organization against Torture, “Violence Against Palestinian Women.” July 2005, https://www2.ohchr.org/engli…/bodies/cerd/docs/ngos/OMCT.pdf [5] Addameer, “10 Facts about Administrative Detention,” 5 Novembre 2015, http://www.addameer.org/…/10-facts-about-administrative-det…
[6] Id.
[7] Tamara Nassar, “Palestinians launch mass hunger strike against prison repression,” Electronic Intifada. 12 Aprile 2019, https://electronicintifada.net/…/palestinians-launch-mass-h…
[8] Nassar, ibidem.
[9] Samidoun Palestinian Prisoner Solidarity Network, “Palestinian women prisoners escalate struggle against repression.” 31 Ottobre 2018, https://samidoun.net/…/palestinian-women-prisoners-escalat…/
[10] Id.
[11] Id.
[12] Leena Jawabreh, “Facing Imprisonment in Israeli Jails: A Palestinian woman’s testimony,” Samidoun. 22 Settembre 2013, https://samidoun.net/…/facing-imprisonment-in-israeli-jail…/
[13] Sahar Francis, “Gendered Violence in Israeli Detention.” Journal of Palestine Studies, Vol. XLVI No. 4 (Summer 2017)
[14] Nahla Abdo, Captive Revolution: Palestinian Women’s Anti-Colonial Struggle Within the Israeli Prison System. 2014, Pluto Press, p. 34
[15] Mustafa Abu Sneineh, “Beds, kettles and books: How hunger strikes changed the cells of Palestinian prisoners,” Middle East Eye. 1 Maggio 2019, https://www.middleeasteye.net/…/beds-kettles-and-books-how-…
[16] AWID, “Feminist perspectives on the Palestinian prisoner hunger strike,” 26 Maggio 2017. https://www.awid.org/…/feminist-perspectives-palestinian-pr…
[17] Addameer, “Education within the Israeli Prisons: A Deliberate Policy to De-Educate,” 9 Giugno 2019, http://www.addameer.org/…/education-within-israeli-prisons-…
[18] aclynn Ashly, “Khalida Jarrar: ‘I will never stop speaking out,’ Electronic Intifada, 28 Marzo 2019, https://electronicintifada.net/…/khalida-jarrar-i-wil…/26961
[19] Samidoun, “Imprisoned Palestinian girls denied educational rights as women self-organize high school exam preparations,” 13 April 2018. https://samidoun.net/…/imprisoned-palestinian-girls-denied…/

Liberamente tratto e tradotto da:
https://samidoun.net/…/palestinian-women-prisoners-the-con…/

Grazie per il lavoro  di traduzione  svolto dalla nostra compagna Luisa

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IL MONDO CHE VERRA’ #rompiamoilsilenzio

E’ il punto zero (della rivoluzione femminista?). Il mondo che verrà sarà inevitabilmente un mondo nuovo.
Siamo di fronte da un lato ai corpi, con la loro estrema vulnerabilità, la malattia e il lutto; dall’altro all’assenza totale di corpi e di contatti. Siamo costrette a lavorare a costo della nostra salute, oppure viviamo le pesanti conseguenze economiche dell’”emergenza”facendo lavori precari, in nero, intermi
ttenti. Dobbiamo stare a casa, anche quando la casa è il luogo più pericoloso che possiamo vivere, o quando una casa non ce l’abbiamo.
La pandemia segna un prima e un dopo. Non torneremo alla normalità, perchè la normalità era il problema
A noi a volte mancano le parole, per questo abbiamo bisogno di trovarle insieme

#restoacasama
Costruire il mondo che verrà riguarda – anche – noi.
Il primo passo è immaginarlo insieme

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