E COSA FACCIAMO CON I VIOLENTI?

Di fronte a questa giustizia retributiva che imparte lo Stato, il libro E cosa facciamo con i violenti?, basato su
riviste degli Stati Uniti, propone l’alternativa di una giustizia trasformativa.
Una delle esperienze più traumatiche con cui mi sono confrontata nella mia militanza politica fu quando,
intorno al 2015, si misero in contatto con Comando Sororidad [commando sorellanza] – collettivo
femminista di Jaén [comune dell’Andalusia] nel quale militavo allora – varie donne, comunicandoci che
stavamo facendo una campagna di appoggio a un compagno che stava subendo una rappresaglia da parte
della polizia, il quale aveva esercitato violenza maschilista. Le donne ci raccontarono in prima persona
testimonianze che colpirono profondamente tutte noi.
La complessità del momento che stavamo vivendo a Jaén, in cui gran parte della militanza politica di sinistra
nella capitale era impegnata nell’appoggio a questo compagno (per il quale veniva chiesta la pena
carceraria per dei fatti in una manifestazione che non aveva commesso), ci fece restare in stato di shock nel
collettivo. Non avevamo alcun tipo di strumento. Non c’eravamo confrontate con nessuna situazione simile
nel nostro anno scarso di attività. Tutto il peso della congiuntura cadde sulle nostre spalle femministe e
dovemmo improvvisare una serie di strategie con cui pretendevamo collettivizzare il problema.

Tre anni dopo, una situazione simile
“Nell’estate del 2018, a noi che facevamo parte di Heura Negra – Assemblea Libertaria del quartiere di
Vallcarca (Barcellona) – ci colpì una situazione complessa, frutto di un’aggressione maschilista accaduta in
ambiente attivista vicino”, così racconta il collettivo che sta dietro il libro E cosa facciamo con i violenti?
Prospettive anarchiche su come affrontare la violenza sessuale e altre aggressioni maschiliste (Descontrol,
2020). È il punto di partenza di una serie di articoli con i quali si cerca di dotare di strumenti di fronte a
situazioni simili le persone o collettivi che si avvicinano alla lettura.
In quel 2018 le componenti di Heura Negra decisero di fare un lavoro di ricerca di riferimenti che
trattassero, da una prospettiva anarchica e non punitiva, la gestione delle aggressioni maschiliste in modo
comune e collettivo. Si imbatterono nella rivista Accounting for ourselves. Breaking the impasse against
agression and abuse in anarchist scene (Raccontato da te stessa. Rompendo l’impasse contro l’aggressione
e l’abuso nel contesto anarchico), una selezione di testi editati negli Stati Uniti nel 2010. Tradussero la
rivista e, di fronte alla carenza di lavori che abbordassero questo dibattito, decisero di presentarlo alla casa
editrice Descontrol per collettivizzare così il proprio lavoro e renderlo utile a più gruppi, assemblee,
collettivi, ecc. La casa editrice, da parte sua, nell’accettare la proposta decise di aggiungere altri testi
(prodotti a Barcellona, Galizia …), modificare l’ordine, dargli un corpo più ampio che arricchisse i punti di
vista e le esperienze di fronte ad un’aggressione maschilista.
Spiego tutto questo perché credo sia importante sapere da dove viene e com’è stato il lavoro di edizione di
un libro come questo. Ma entro nel vivo, che non è poco, perché la sua lettura provoca molti sentimenti
controversi, dubbi, riflessioni, speranze e disperazioni, e la certezza che dobbiamo fare ancora molto lavoro
collettivo, non solo per affrontare situazioni così difficili nelle comunità, ma anche per creare forme di vita
antagonista solide di fronte al modello capitalista neoliberista.

Giustizia trasformativa contro giustizia retributiva
Abbiamo bisogno dell’utopia per immaginare un’altra forma di organizzazione sociale ed economica
possibile – come diceva Bakunin, abbiamo bisogno di “organizzare la società in modo tale che ogni
individuo, uomo o donna, trovi alla sua nascita mezzi quasi uguali per lo sviluppo delle sue diverse facoltà e

il pieno godimento del suo lavoro”. In uno dei suoi testi filosofici, Bakunin parla della giustizia umana contro
la giustizia legale. Quest’ultima sarebbe “la giustizia contenuta nei codici legali e nella giurisprudenza
romana, che si basa fondamentalmente in atti di violenza compiuti con la forza, consacrati dal tempo e
dalla benedizione di qualche chiesa – cristiana o pagana – e accettati come principi assoluti da cui devono
dedursi tutte le leggi per un processo di ragionamento logico”.
La critica dall’ambito libertario allo Stato e a tutto il suo tessuto organizzativo in cui, ovviamente, si trova il
sistema giudiziario e la giustizia retributiva che imparte, è fondamentale. Le compagne del C.A.M.P.A.
(Colectivo de Apoyo a Mujeres Presas de Aragón – collettivo di sostegno alle donne detenute di Aragona)
segnalano nella loro piccola rivista Las cárceles no son feministas che “il populismo punitivo si basa sul
pensiero neoliberista secondo cui le responsabilità sono individuali e la società è una somma di volontà
libere, ammettendo che non esistono i condizionamenti materiali o che la nostra personalità non si
costruisce in base a interazioni sociali”.
Di fronte a questa giustizia retributiva che imparte lo Stato, nella quale di fronte ad un danno, mancanza o
crimine si fissa una pena e dove tutto il processo rimane delegato in un’istituzione in cui non arriviamo a
sapere molto bene cosa succede, un’istituzione con secoli di storia ed erede di un’immagine borghese con
interessi (neo)liberisti e capitalisti, E cosa facciamo con i violenti? propone l’alternativa di una giustizia
trasformatrice. Questo tipo di giustizia, che ben potrebbe avvicinarsi a quella che Bakunin chiamava
giustizia umana, prende da alcune pratiche indigene (come per esempio le Giunte di Buon Governo e le
Commissioni di Onore e Giustizia zapatiste) il lavoro di mediazione e la giustizia restaurativa.
La giustizia restaurativa mette al centro i bisogni delle persone che hanno sofferto un danno e anche in
quelle che lo hanno prodotto, rifiutando il castigo e il compimento di principi legali astratti. Questa giustizia
tenta di ristabilire il momento anteriore al danno causato. Come spiegato in uno dei testi del libro, si tratta
di un modello “basato su una teoria della ‘giustizia’ che interpreta il ‘crimine’ e le cattive pratiche come
un’offesa contro individui o comunità, invece che contro lo Stato”; senza dubbio, una delle debolezze di
questo modello è che il proprio Stato se ne è appropriato. La giustizia trasformativa va oltre, cerca di
ristabilire il momento anteriore e nello stesso tempo opera nella comunità in cui avviene, essendo la
comunità parte del processo; così, attraverso la tecnica della responsabilità cosciente, il cambiamento
opera non solo negli individui affettati, ma nella stessa comunità.
Già si sottolinea in un altro dei testi del libro, “quando parliamo di processo di responsabilizzazione
cosciente noi ci riferiamo a sforzi collettivi per affrontare un danno – in questo caso, un’aggressione
sessuale o una situazione di abuso e/o maltrattamento – non focalizzati nel castigo o nella ‘giustizia
convenzionale’”. Nel libro si mostra, con esempi reali di assemblee e collettivi negli Stati Uniti, i passi da
seguire al momento di utilizzare questo tipo di giustizia come un nuovo orizzonte dentro i nostri spazi. Ciò
nonostante, avvertono che gli ostacoli non sono pochi: la frustrazione di non sapere quando termina il
processo, l’incapacità al momento di porre degli obiettivi reali, le situazioni collettive che incoraggiano
comportamenti irresponsabili – come la cultura dello sballo (il consumo di alcol e/o droghe negli spazi) -.
Precisamente una delle ricchezze del libro è che la compilazione dei testi va oltre e, sebbene vi sia un forte
impegno a spiegare cosa siano la giustizia trasformativa e la responsabilità consapevole, non si limitano
solo a mostrare questa posizione. Si assume che “allo stesso modo della JJ [Justicia Judicial, giustizia
giudiziaria], le concezioni ‘trasformatrici’ crollano senza un’analisi del potere” e ci presentano un altro tipo
di strumenti alternativi. Inoltre, delle quattro sezioni del libro, le ultime due offrono esperienze di azione
diretta, comunicati di mutuo sostegno di fronte ad aggressioni in seno ai collettivi, narrazioni in cui si
racconta l’esperienza/sentimento di fronte ad un’aggressione/violazione e inoltre c’è un testo per capire il
ruolo che gioca la mascolinità nella violazione e la cultura della violazione.

Dalla teoria alla pratica comunitaria
Penso in una frase del libro: “non può esserci responsabilità cosciente comunitaria senza comunità”.
Abbiamo bisogno di comunità forti. Questo mi fa pensare in uno dei progetti più solidi che esistono in
Euskal Herria [Paesi Baschi], si tratta di Errekaleor Bizirik [quartiere autogestito]. Domando a Hirune,

abitante del quartiere liberato, come vivono lì i conflitti che si generano nella comunità; mi confessa che “la
teoria è una cosa e la pratica un’altra, qui abbiamo differenziato tra conflitti che si generano con la
convivenza o tra posizioni politiche, e le aggressioni sessiste e la violenza di genere”.
Nei primi casi, nell’assemblea si forma un gruppo di persone mediatrici che iniziano un processo con
differenti dinamiche per affrontare la questione che ha generato il conflitto. Invece, quando si tratta di
aggressione maschilista o violenza di genere, Hirune racconta che con il tempo si è andati imparando e che
nessun caso si affronta nello stesso modo, “prima si giudicava e si poneva in dubbio la parola della persona
aggredita, ma adesso abbiamo capito che questo tipo di aggressioni ha una buona parte di soggettività e
che pertanto non si può giudicare, e soprattutto in un’assemblea dove ancora si sta lavorando sul
femminismo”. Ora si cerca di fare in modo che la vittima si senta meglio possibile, si forma un gruppo vicino
a lei per sapere come si sente e di cosa ha bisogno, e in base a questo si fa nel seguente modo: “Se non può
convivere nello stesso spazio con la persona che ha commesso l’aggressione, questa deve abbandonare il
progetto; sì, cerchiamo un cambiamento, che la persona accetti ciò che ha fatto e si sottoponga a un
processo di ‘guarigione’ affinché cambi e possa tornare nello spazio, anche se non sempre abbiamo avuto la
forza di farlo”, confessa la compagna di Errekaleor Bizirik. Inoltre rivela il fatto che di solito sono le donne
che si incaricano di questi processi “ora alcuni compagni hanno creato uno spazio proprio per affrontare
questi temi, poiché se gli uomini non affrontano questi temi non possono deliberare nelle assemblee”
afferma.

Una guida
Questo libro è un oggetto che ci può servire nei nostri spazi, anche al di là che siano libertari o meno; un
libro che può servire in assemblee miste o non miste, in gruppi piccoli e più grandi. È una guida di lavoro
che apre il cammino al dialogo, da cui possiamo prendere o scartare approcci, ma che ci fa guardare ad
altre esperienze dall'accumulo di saperi.
Forse mi stridono certe affermazioni rispetto all’anarchismo che sono abbastanza superflue e che hanno a
che fare con l’idea che l’anarchismo sia una subcultura senza un corpo teorico e pratico trasformatore,
mentre l’anarchismo ha una ricchezza di secoli che oggi si ritrova in moltissimi collettivi e organizzazioni.
Essere anarchico, o praticare l’anarchia, ovviamente è molto di più che “odiare la polizia e amare i concerti
punk”. Oltre a questo, e come appare nel libro, bisogna assumere che “nessun processo può essere libero
da dolore e angoscia, però se vogliamo raggiungere dei risultati soddisfacenti, riducendo al minimo
l’impatto sui nostri collettivi, dobbiamo rinunciare al dogmatismo, mettere in discussione i nostri
presupposti e obiettivi e sperimentare criticamente un'ampia gamma di strumenti”.
Cosa avremo dato in quel 2015 per avere un libro come questo nella nostra biblioteca di Comando
Sororidad, per non sentirci sole, per apprendere il doloroso e il difficile da altre esperienze. Come ben dice
Hirune, la teoria è una cosa e la pratica un’altra, e alla fine si apprende nel cammino.

Araceli Pulpillo, 09/06/2021
https://www.pikaramagazine.com/2021/06/y-que-hacemos-con-los-violadores/

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Rito di sorellanza

Anche questo mese ci siamo ritrovate in piazza per il nostro rito di sorellanza, per ridare voce a tutte quelle donne che sono state uccise dalla violenza patriarcale.  Ogni panuelo corrisponde ad un nome, ad una donna, ad una storia.  Noi tramite questo rito vogliamo parlare di queste donne e delle loro storie, ma vogliamo anche evidenziare purtroppo quanto è feroce la violenza patriarcale. Quanto al giorno d’oggi noi non siamo tutelate, non siamo credute, non siamo al sicuro. Questo  non vuol dire che abbiamo paura, anzi ciò vuole proprio dimostrare che in realtà è la libertà di essere donne che spaventa, ed è proprio tale libertà che il patriarcato con i suoi figli vuole distruggere

Noi crediamo nella libertà di ognuna di noi.

Ci vogliamo libere. CI VOGLIAMO VIVE

#bastafemminicietranscidi

 

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Con le donne afghane: ORA E SEMPRE RESISTENZA

Le donne del mondo e le persone nostre alleate stanno con le donne – e tutti i gruppi vulnerabili – dell’#Afghanistan contro l’imperialismo, il militarismo, il fondamentalismo e il fascismo. Nessun* di noi è liber* finché le donne dell’Afghanistan non sono libere.
Le donne del mondo e tutte le persone nostre alleate insorgono, alzano le loro grida e manifestano la loro rabbia per le donne in Afghanistan.
Un’azione di solidarietà globale nella tua città, nel tuo paese, nella tua scuola. Ovunque. Invita tutti, contatta attivist*, studenti, artist*, gruppi per la giustizia sociale e chiunque altro.

👉🏼 Seguiamo l’esempio delle donne afghane sul campo. Chiediamo urgentemente ai governi, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e alle entità regionali di:
• Rifiutare di riconoscere un governo talebano, che non ha alcuna legittimità al di là della forza brutale che comanda e che terrorizza il popolo afghano, in particolare le ragazze e le donne.
• Fermare tutte le forme di sostegno ai talebani, compresi i finanziamenti, la fornitura di armi e capacità tecniche.
• Porre fine all’imperialismo, al militarismo, al fascismo e al fondamentalismo religioso. Fermare e prevenire la manipolazione dei diritti delle donne per interessi commerciali e di altro tipo.
• Sostenere la resistenza delle donne ai talebani in Afghanistan. Rispettare e sostenere l’esercizio da parte delle donne e del popolo afghano dei loro diritti democratici e umani, compreso il loro diritto all’autodeterminazione.
• Evacuare donne e uomini, difensori dei diritti umani, giornalist*, agenti di polizia, dipendenti pubblici, atleti e persone LGBTI+ che desiderano lasciare il paese e garantire il loro passaggio sicuro.
• Creare un organismo indipendente di osservazione, composto da una maggioranza di donne, che abbiano una storia di promozione dei diritti umani delle donne per monitorare la situazione in Afghanistan.
• Accogliere le persone rifugiate, con gli Stati Uniti ei loro alleati che si assumono la responsabilità di finanziare il costo del reinsediamento degli sfollati dall’Afghanistan.
• Aprire immediatamente corridoi umanitari per sostenere il popolo afghano.
• Fermare le politiche commerciali di armi e il complesso industriale militare, che trae profitto dalle guerre in corso in Afghanistan e altrove nel mondo».

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Rito di sorellanza

È dall’otto Marzo scorso che in piazza SS. Annunziata, rinominata piazza Non Una di Meno, abbiamo iniziato ad appendere lucchetti e pañuelos, che riportano nome, cognome e data di morte delle donne uccise dalla violenza patriarcale. Ricordiamo tutti i femminicidi e i transicidi.

Ogni 8 del mese ci ritroviamo lì, davanti alla fontana, per ricordare queste sorelle che hanno pagato con la vita la loro volontà di autodeterminazione e libertà. Ogni 8 del mese ci ritroviamo lì per raccontare le storie di quelle donne, per dare loro una voce. Nei giorni scorsi, per la seconda volta  da quando abbiamo iniziato questo rito, ci siamo viste staccare tutti i pañuelos.

Un atto vile, indegno. Non sappiamo e neanche ci interessa più sapere chi è l’artefice di ciò, in nome di quale decoro, motivo o beffa abbiamo deciso di fare questo.

L’unica cosa che sappiamo è che a quanto pare la voce delle donne fa paura. Fa paura anche quando le donne a parlare non sono più su questa terra, fa paura anche quando semplicemente si tenta di ricordare i loro nomi e le loro storie. Fa paura perché per l’ennesima volta abbiamo deciso di puntare il dito con questa  sistema patriarcale che ricopre in questo caso il ruolo di assassino.

Sapete che vi diciamo? Potete staccare tutti i pañuelos che volete, potete  attaccarci, tentare di zittirci. Ma noi ogni mese saremo lì, ogni mese saremo lì con i nostri lucchetti, la nostra stoffa fucsia a dare voce alle donne uccise, a stare dalla parte di tutte le nostre sorelle.

Per dare modo di partecipare al rito a più persone abbiamo deciso di incontrarci l’8 di ogni mese alle ore 18.00.

Noi ci saremo anche domenica 8 agosto, e rimetteremo tutti i pañuelos che sono stati strappati, oltre ai nuovi lucchetti per ricordare le sorell3 assassinate nell’ultimo mese. In caso di pioggia consistente si rimanda al giorno dopo stessa ora.

BASTA FEMMINICIDI, CI VOGLIAMO LIBERƏ, CI VOGLIAMO VIVƏ!

SIAMO IL GRIDO ALTISSIMO E FEROCE DI TUTTE QUELLƏ DONNƏ CHE PIÙ NON HANNO VOCE!

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Se le signorine alzano la voce

Riflessioni sulla denuncia pubblica del sessismo nei luoghi di elezione

Introduzione – Perché luoghi di elezione

Nel testo che segue non troverete, se non questa volta, la formula sessismo nei movimenti e non perché questo non sia uno degli argomenti e l’esperienza da cui sono scaturite le nostre riflessioni; scriviamo infatti anche a partire da un episodio recente accaduto qui a Firenze, quando abbiamo denunciato pubblicamente un caso di violenza legato a un centro sociale della nostra città. Partendo da noi e dalle nostre esperienze sentiamo l’urgenza di superare la definizione sessismo nei movimenti. Ad oggi non vediamo nessuna differenza nelle forme e nella sostanza in cui si dà la violenza patriarcale in qualunque ambiente essa venga praticata e, soprattutto, non vediamo alcuna differenza nelle risposte che l’abusante e chi lo spalleggia mettono in atto contro chi invece osa alzare la voce. Se non vi sono differenze fra la famiglia, la scuola, l’oratorio, il posto di lavoro o un centro sociale perché fino ad ora abbiamo trattato questultimo ambiente come un piccolo mondo a sé stante? Probabilmente per il motivo più semplice del mondo: ne avevamo bisogno. Avevamo bisogno di sentirci sicure e capite, accolte e credute, insomma trattate da pari. Ma così non è, e continuare a distinguere non solo ci illude ma ci rende vulnerabili, ci fa abbassare la guardia: non riusciamo più a riconoscere la violenza che, con le stesse dinamiche e nelle stesse forme, in qualunque altro contesto ci sembrerebbe lampante. E quindi d’ora in poi, parleremo di sessismo nei luoghi delezione, spazi scelti, percepiti più sicuri, tanto da poter deporre le armi e sentirsi libere. Tu che stai leggendo saprai che stiamo parlando anche dei tuoi spazi, che siano l’oratorio o il collettivo. Se ti rivedi in ciò che leggerai, se penserai di aver avuto queste esperienze come noi, o ne hai solo il dubbio, sappi che, ovunque tu sia, sorella non sei sola.

 

Capitolo I – La lingua come strumento di dominio, ossia la non neutralità delle parole

Nella nostra breve ma intensa storia (come movimento transnazionale esistiamo all’incirca da 5 anni) abbiamo subito gli stessi attacchi di tutti i femminismi, in ogni tempo e dovunque: siamo streghe, siamo arroganti, siamo giudicanti e “maestrine”, a volte siamo anche fasciste, altre invece siamo “signorine” che devono tornare al posto a cui siamo predestinate, accudenti, decorose e silenziose. Per molti, dentro e fuori l’ambito politico, siamo il movimento degli asterischi, del non si può più dire niente, del ci sono cose più importanti del linguaggio…. Proprio da queste ultime tre frasi vogliamo partire. 

Capiamo che, per chi è sempre stato abituato a narrare il mondo e ad essere il centro di quella narrazione, impiegare tante energie e riflessioni su una cosa all’apparenza frivola come le parole può sembrare incomprensibile e accademico.
Per noi che in quel linguaggio siamo sempre e solo oggetti non è così. La lingua non può essere neutra, forma il pensiero e veicola la creazione di strutture sociali stabilite, condivise e inattaccabili perché naturalizzate. L’espulsione del femminile e del non binario dal mondo del parlato e dello scritto fa sì che questi soggetti non abbiano nemmeno l’idea di potersi prendere quello spazio di espressione che è il linguaggio. Non siamo pronunciate quindi non esistiamo. Ciò di cui non si parla, non esiste. Non produciamo cultura quindi non abbiamo accesso alla cultura. In un qualsiasi testo scolastico compariamo solo come oggetti del sapere e mai come protagoniste, quindi siamo oggetti. Negare la centralità del linguaggio come arma di dominio e terreno di scontro, è negare l’istanza più basilare di questo conflitto e cioè che il patriarcato è strutturale e fa parte di tutte noi, poiché è in questo sistema che veniamo socializzate fin dalla nascita. È anche la forma di dominio che permette al capitalismo di sopravvivere e riprodursi. Consente al maschio adulto lavoratore di sfogare su di noi la frustrazione accumulata in una lunga giornata di sfruttamento. Non riconosce e non retribuisce quel lavoro che sostiene chi compie lavoro produttivo. Consente di sostituire servizi sociali carenti con il nostro lavoro di cura costante, consolidato e non retribuito. Rompere o incrinare questa struttura è impossibile se non ci costruiamo degli strumenti collettivi che ci permettano di illuminare lo stato delle cose per ribaltarlo. Riuscire a nominare la violenza che subiamo è il primo passo, riconoscerla come sistemica il secondo, attaccarla il terzo. 

Ma come possiamo colpire un nemico così grande e radicato se non abbiano frecce al nostro arco? Intanto una freccia ce l’abbiamo ed è la fiducia o, per meglio dire, la sorellanza. Parlare di sorellanza vuol dire rompere quel vincolo sociale che ci vorrebbe in competizione le une contro le altre. Praticare sorella io ti credo è prima di tutto credere a noi stesse. Perché ognuna di noi ha sperimentato la violenza sulla propria pelle e ognuna di noi, prima di scegliere se parlare o meno, ha attentamente soppesato il prezzo che avrebbe pagato alzando la testa. No, la nostra non è una fede religiosa, anzi non esiste qualcosa di più opposto a una fede cieca. Sorella noi ti crediamo, e ti crediamo perché sappiamo cosa ti aspetta prendendo parola. Perché il tuo coraggio di ribellarti è il nostro o quello che avremmo voluto avere, perché il banco degli imputati che ti aspetta lo conosciamo tutte e solo tutte insieme riusciremo a dargli fuoco. Per riuscire a nominare la violenza servono parole e le parole non esistono, in una lingua in cui non sei il soggetto. Così quando le parole diventano la nostra arma la controparte si organizza e mette in atto strategie per impedirci di creare e condividere nuove parole. È così che, quando le donne e i soggetti non binari alzano la voce, nascono mille inciampi: momenti di confronto privati, discussioni informali, voci di corridoio con un solo obiettivo: tenerci separate, impedirci di creare quel linguaggio condiviso per nominare l’oppressione e permettere a noi tutte di identificarla. Ci scagliamo contro questa richiesta di omertà con ogni mezzo necessario. Se sentiamo il dovere di parlare forte è proprio perché ogni donna e ogni soggetto non binario possa sentire e prendere parola. Rivendichiamo ogni strumento per arrivare a questobiettivo. Gridiamo nelle piazze e nelle strade, scriviamo su giornali e social network. C‘è solo una cosa a cui non siamo più disposte: stare zitte.

 

Capitolo II – No, non siamo tua madre. Contro la pretesa di chi ci vuole accudenti

La richiesta di silenzio o di bassi toni sui casi di violenza in luoghi supposti safe si basa sul nostro preteso ruolo di cura. Dagli albori del femminismo ci sentiamo dire che se alziamo la voce siamo aggressive, che i modi non sono questi, che ci dobbiamo spiegare meglio. Basta. Non siamo tenute alla cura del nostro oppressore. Siamo stufe di essere continuamente confrontate con le femministe di ieri, di oggi o di domani, di sentirci dire che, in quella o nell’altra parte del mondo, le donne fanno una lotta più o meno concreta rispetto alla nostra, o con obiettivi più importanti, che le tematiche per cui battersi sono quelle piuttosto che altre. Non tolleriamo accuse di giustizialismo semplicemente perché non è giustizialismo usare la voce per nominare una violenza. 

Nominare pubblicamente la violenza è una delle nostre frecce e non siamo disposte a cederla. Non ci auguriamo condanne esemplari per i colpevoli ma siamo fermamente convinte che additare una violenza o un violento permette ad altre di avere più strumenti per riconoscere il sessismo e sarà monito a chi vuole agire violenze future. Non saremo più vittime silenziose o che si raccontano i mali di vivere per trovare un minimo di forza per sopportare il prossimo colpo. Se prendiamo parola, certi passaggi li abbiamo chiari. Se basta questo a evocare lo spettro di un processo è perché troppi non si mettono in discussione e non perché noi vogliamo essere giustiziere della notte. Chi accusa femministe e transfemministe che prendono parola di volersi sostituire ai tribunali quasi sempre minimizza la violenza. 

Ne mette in dubbio la gravità e tende a distinguere ciò che è grave o meno grave arrivando ad una vera e propria pornografia morbosa dei fatti. Esattamente lo stesso atteggiamento dei giudici e della peggior stampa mainstream. Inoltre sottolineiamo che l’equazione denuncia pubblica uguale processo scatta solo quando si parla di violenza maschile e di genere, e non ci risulta che questo accada a chi denuncia lo sfruttamento o i comportamenti razzisti. Pretendere a priori che persino quando denunciamo dovremmo svolgere un ruolo di cura è sessismo. Decidiamo noi quali sono le nostre modalità, a voi rimane da scegliere se essere alleati o padroni. Ricordatevi che le suffragette mettevano le bombe. Di fronte a una violenza rivendichiamo la nostra rabbia. Non pretendete da noi accompagnamento materno.

 

Capitolo III – La verità non sta nel mezzo

Certo, non abbiamo da proporre magiche formule per abbattere il Patriarcato, ma alcune cose le abbiamo comprese e vogliamo condividerle. Se crediamo a chi nomina e denuncia la violenza, è necessario prendere posizione. La lotta alla violenza di genere come ogni lotta contro qualsivoglia dominio non può prevedere equidistanza tra vittima e carnefice. Il dominio lo si agisce o lo si subisce. La verità non sta nel mezzo. Il primo passo deve essere quello di credere e stare vicino a chi ha trovato il coraggio di parlare, in maniera non giudicante, perché crediamo sia prioritario costruire spazi sicuri per noi e per tutte le altre. 

Allontanare pubblicamente chi ha agito violenza è un compito che spetta a tutte le appartenenti alla collettività entro cui questa violenza si è data. Non è possibile chiedere a chi ha denunciato di gestire le conseguenze, come non è una valida alternativa affidare tale gestione alle relazioni personali dellabusante, che probabilmente staranno attraversando un momento di forte confusione e sofferenza. Per questo il ruolo della collettività è centrale. Allontanare il violento è necessario ma non sufficiente, perché potrebbe riprodurre quegli stessi meccanismi in nuove circostanze. E allora che fare?

 

Innanzitutto, una buona pratica sarebbe la messa in discussione dei meccanismi relazionali e sociali del contesto a cui labusante appartiene, per individuare un sottobosco favorevole, non per forza a legittimare, ma di certo a minimizzare determinate forme di dominio. Assicurarsi che lo spazio di elezione sia davvero uno spazio sicuro e di sorellanza per chi ha denunciato e, se questo non è, lavorare affinché lo sia, destrutturando tutte quelle dinamiche che ci portano ad essere complici della violenza di genere o ad assolverla. Solo a questo punto crediamo sia possibile iniziare a pensare all’abusante che, ammesso sia stato in grado di riconoscere la violenza agita, può essere indirizzato verso un percorso di decostruzione soggettiva guidato da persone competenti, e non dalla sua cerchia amicale e/o politica. Se anche uno solo di questi passaggi non si dà, il risultato è quello di rafforzare, invece che incrinare, la catena del dominio di genere, una catena composta da tanti piccoli anelli che si stringono e che sono ciò che garantisce al Patriarcato di essere sistemico. In questo il ruolo delle donne e dei soggetti non binari è centrale. 

Sappiamo di essere state soggettivate – soggettivazione come costruzione del sè che si dà all’interno di un dato sistema e che ne viene influenzata a livello profondo – in una società patriarcale fin dalla nascita e sappiamo anche che quando incontriamo le genealogie e le pratiche transfemministe, così distanti dalla realtà che conosciamo, si apre un conflitto interiore complesso e doloroso. Spesso, da attiviste, rispondiamo a questo conflitto convincendoci che il nostro compito sia quello di stare dentro a spazi misti per operare un cambiamento interno, come si diceva dentro e contro, ma se siamo senza strumenti questa operazione non avrà nessuna possibilità di successo. Il nostro lavoro verrà continuamente frustrato, porte dolore e sofferenza e ci farà mettere sulla difensiva, convinte che chi sta “fuori” non comprenda i nostri sforzi di tenere insieme tutti i livelli. 

Sorella non è così. Comprendiamo perfettamente, proprio perché quasi tutte noi ci siamo passate. Abbiamo lottato come stai lottando tu e abbiamo sofferto come stai soffrendo tu. Siamo arrivate alla conclusione che senza una messa in comune di voci e di strumenti di analisi e di attacco non abbiamo prospettive. Finché il tuo dolore rimarrà solo tuo sarà la tua prigione ma se permetterai alle altre di prenderlo in carico alimenterà la nostra forza dirompente.  Il dominio maschile è una questione di privilegio e nessuno molla il proprio privilegio solo perché lo chiediamo educatamente. Dobbiamo costruire un rapporto di forze tale da imporre un ribaltamento, che il dominante e chi lo copre lo vogliano o no. Alla fine, la violenza che viviamo non è diversa da tutte le altre forme di violenza che si danno in questa società dominata dal capitale. Violenze che, non ci stancheremo mai di ripetere, sono duali: da una parte c’è chi il potere lo esercita, dall’altra chi il potere lo subisce. 

È così in tutte le varie intersezioni: tra le altre, capitale e lavoro, colonizzatori e colonizzati, adulti e giovani ed è così anche nel dominio dell’uomo sulle donne e sulle persone non binarie. Questo dominio viene esercitato da borghesi o operai, coloni o colonizzati, vecchi o giovani e chi detiene un privilegio lo difende con le unghie e con i denti, tentando di nascondersi dietro mille giustificazioni. Ma c’è una cosa che ci teniamo a dire: l’identità e la purezza che ci si ostina a difendere sono già andate in pezzi sotto la spinta della marea transfemminista globale, siamo ovunque e vogliamo tutto, perché se domani tocca a me se domani non torno a casa, sorella distruggi tutto.

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1° Luglio Transfemminista

Nella giornata dell’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul ci ritroviamo insieme per guardare il film Mustang della regista Deniz Gamze Ergüven, a seguire avremo un dibattito.

Oggi in molte città italiane ci sono state manifestazioni di protesta contro la violenza di genere, contro l’uscita della Turchia dalla convenzione di Istanbul perché ci riguarda tutte.

Qui insieme per difenderci contro tutte le violenze che subiamo ogni giorno, in ogni parte del mondo in cui siamo!

Ci vogliamo vive

Ci vogliamo libere

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1 Luglio Transnazionale Transfemminista

𝐈𝐥 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐨 𝐥𝐮𝐠𝐥𝐢𝐨 𝐥𝐚 𝐓𝐮𝐫𝐜𝐡𝐢𝐚 𝐮𝐬𝐜𝐢𝐫à 𝐮𝐟𝐟𝐢𝐜𝐢𝐚𝐥𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐂𝐨𝐧𝐯𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐈𝐬𝐭𝐚𝐧𝐛𝐮𝐥, il trattato internazionale sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica in vigore dal 11 maggio 2011

La Convenzione di Istanbul è “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza”,ed è incentrata sulla prevenzione della violenza domestica, proteggere le vittime e perseguire i trasgressori.

𝐈𝐧 𝐈𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚, 𝐢𝐧 𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐚 𝐞 𝐢𝐧 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐢𝐥 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐨, 𝐥’𝐚𝐭𝐭𝐚𝐜𝐜𝐨 𝐩𝐚𝐭𝐫𝐢𝐚𝐫𝐜𝐚𝐥𝐞 𝐞 𝐥𝐚 𝐯𝐢𝐨𝐥𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐥𝐞 𝐝𝐨𝐧𝐧𝐞 𝐞 𝐥𝐞 𝐬𝐨𝐠𝐠𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐢𝐭à 𝐋𝐆𝐁𝐓*𝐐𝐈𝐀+ 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐢𝐧𝐮𝐚𝐧𝐨 𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐧𝐬𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐫𝐬𝐢.
Sappiamo bene che la violenza si manifesta in ogni ambito della nostra vita e in moltissime forme, e di cui i femminicidi sono solo quella più visibile. Solo in Italia, sono oltre 45 le donne uccise dall’inizio dell’anno.

In quella data la rete nazionale di Non Una di Meno si unirà con iniziative dislocate su tutto il territorio alla mobilitazione transnazionale lanciata dai movimenti delle donne e delle persone LGBT*QIA+ in Turchia e della rete E.A.S.T. – Essential Autonomous Struggles Transnational, in connessione con le mobilitazioni femministe e transfemministe contro la violenza maschile e di Stato in America Latina, per dire chiaramente che non accetteremo di pagare l’uscita dalla crisi sociale pandemica al prezzo della nostra libertà. Il messaggio deve essere chiaro ancora una volta: non abbassiamo la testa, non restiamo in silenzio!

🔥✊ 𝐀𝐧𝐜𝐡𝐞 noi saremo 𝐢𝐧 𝐩𝐢𝐚𝐳𝐳𝐚 𝐢𝐥 𝟏 𝐋𝐮𝐠𝐥𝐢𝐨: 𝐜𝐢 𝐯𝐞𝐝𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐞 21,30 𝐢𝐧 𝐩𝐢𝐚𝐳𝐳𝐚 TASSO per la proiezione del film Mustang della regista turca Deniz Gamze Ergüven, introduce una compagna di origine turche in modo da avere una panoramica sull’attuale situazione nella Turchia di Erdogan, a seguire dibattito e birrette 🔥✊

𝗦𝗘 𝗧𝗢𝗖𝗖𝗔𝗡𝗢 𝗨NƏ 𝗧𝗢𝗖𝗖𝗔𝗡𝗢 𝗧𝗨𝗧𝗧Ə
#civogliamovive
#civogliamolibere
#bastatransfemminicidi

👉 Leggi l’appello completo di NON UNA DI MENO per il 1 Luglio:
https://nonunadimeno.wordpress.com/…/non-una-di-meno…/

👉 Qui l’evento nazionale in aggiornamento con gli appuntamenti nelle diverse città: https://www.facebook.com/events/862677128018134

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Presidio Senato Unifi

Unifi Odia le Donne?

SIAMO davanti il Senato di Unofi per portare la testimonianza di cosa succede nel dipartimento di Infermieristica: infatti se scegli di portare avanti una gravidanza il tuo percorso di studi viene bloccato per circa un anno con conseguente perdita della borsa di studio e automatico passaggio al fuori corso (con conseguente aumento delle tasse).

Siamo stanche si essere sempre sotto processo, sia che si scelga l’IVG sia che si scelga la maternità.

Università degli Studi di Firenze deve prendere una posizione e dei provvedimenti emergenziali immediati.

SIAMO in Piazza Sam Marco di fronte al Rettorato, per gridare a gran voce le nostre ragioni al Senato Accademico.
Perché le cose devono cambiare ora e per tutte!
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UniFi riconosce l’attuale stato discriminatorio a Infermieristica

🔥UniFi riconosce l’attuale stato discriminatorio a Infermieristuca🔥

Una primo traguardo è stato raggiunto, dopo ormai mesi di pressione e presa di parola UniFi riconosce che la situazione a infermieristica è fortemente discriminatoria e, almeno a parole, se ne prende carico fino a dichiarare volontà di portare la questione a livello ministeriale. Ne siamo felici ma questo non ci basta. Riconoscere la problematica è solo il primo passo, adesso vogliamo soluzioni emergenziali ed immediate per risolvere la questione nel presente. Le nostre vite vengono prima di un inter burocratico.
Per questo domani saremo in Piazza San Marco di fronte al Rettorato!
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Petizione La maternità non è una colpa ma una libera scelta

Al momento il dipartimento di Infermieristica presso Università degli Studi di Firenze non prevede percorsi che permettano alle studentesse di non dover scegliere fra diritto allo studio e diritto alla maternità.

Siamo stanche di queste situazioni.

Chiediamo a tutte e tutti di firmare la lettera aperta che segue, indirizzata alla Magnifica Rettrice Petrucci e al Senato Accademico affinche UniFi prenda immediatamente posizione e si faccio carico di portare la voce delle studentesse e di tutte e tutti i solidali nelle sedi opportune.

Clicca qui per firmare

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