RITO DI SORELLANZA

Ieri ci siamo ritrovate per ricordare le donne vittime di femminicidio in Italia nel 2021: per ognuna di loro abbiamo appeso un panuelo rosa e un lucchetto alla fontana in piazza Non Una di Meno (Santissima Annunziata). Continueremo il Nostro rito di sorellanza tutti gli 8 di ogni mese!

Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle Donne che più non hanno voce

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25 NOVEMBRE: GIORNTA ITERNAZIONELE CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE E DI GENERE CONTRO LE DONNE!

In questa giornata abbiamo deciso di riunirci tutte insieme, in una sorta di rito, quasi come le streghe, attraverso la preparazione di una minestra- pozione che ci è servita non solo per parlare di donne in ottica vittimistica, ma anche in termini di liberazione e di sorellanza.

Zucca, carote, zucchine, olio, zenzero, aglio e cipolla: questa è la ricetta della pozione delle sorelle, che nella giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne e di genere mischiano gli ingredienti della liberazione e della rivoluzione

Come con le cipolle, abbiamo spesso pianto per le ingiustizie, per le ferite e le discriminazioni. Siamo nate con un futuro già scritto, costrette a giocare con le bambole, ad imparare ad essere docili e remissive, a non disturbare mai. Abbiamo dovuto sopportare quel commento per strada, la mano che cade toccandoci il culo, il professore molesto, il medico intrusivo, il capo che naturalmente si aspetta di pagarci meno e perchè no, che qualche prestazione extra lavorativa gli sia dovuta. E dopo queste lacrime abbiamo smesso di piangerle da sole, e abbiamo iniziato a piangerle insieme. A parlare, a scoprire che non era solo nel nostro piccolo che il mondo ci tormentava, ma le nostre piccole e grandi disgrazie erano in realtà un male comune, un regime di genere fatto di dominazione e segregazione. E allora le cipolle che ci facevano piangere abbiamo iniziato a tirarle, a tagliarle tutte insieme per farne cibo per il nostro corpo, zuppe per le nostre menti.

Carote e bastoni: fin troppo spesso abbiamo creduto che fosse normale vivere relazioni in cui veniva somministrato a volte il bastone, a volte la carota. La violenza maschile contro le donne e di genere è strutturale, e riguarda tutti gli ambiti delle nostre vite. Sul lavoro, a scuola, nei gruppi di elezione, in famiglia, in coppia. Nelle relazioni intime può succedere a tutte. Perchè viviamo in una società fondata sullo stupro e sull’abuso, e perchè l’abuso è normalizzato nelle nostre vite quasi che debba inevitabilmente andare così. La violenza è una spirale. Può iniziare con una parola aggressiva, con un ricatto emotivo, con un controllo crescente (sul nostro telefono, le nostre amicizie, le nostre uscite, le nostre vite). Poi cresce e si espande, riguarda la libertà di disporre delle nostre reti di affetti, delle risorse economiche, della casa. Esplode in tante forme, da quella psicologica a quella fisica, può essere sottile e capillare. Molto spesso è un ciclo: arrivano le scuse, i pentimenti. E poi la luna di miele, dove tutto torna meraviglioso, dove ci sembra di poter dimenticare la violenza subita. Che invece torna ancora, perché è una spirale. Non esiste un modo semplice né unico per uscirne. Si possono trovare però delle strade insieme: provando a parlarne con le amiche, con le sorelle, con le compagne. Rivolgendosi ai centri antiviolenza o alle assemblee femministe. La liberazione dalla violenza è un processo lungo e faticoso, ci richiede di trasformare profondamente la nostra vita. E ognuna lo fa a modo suo. Di sicuro, insieme possiamo prendere e spaccare il bastone, e la carota possiamo tagliarla con amore, e gettarla nella pozione magica della sorellanza.

Troppe Zucche abbiamo svuotato, per mettere dentro i lumini con cui ricordato le donne, lesbiche e le persone trans uccise. Dal proprio compagno, da un parente, da un amico. I femminicidi sono ancora oggi decine e centinaia. Non sono frutto di un raptus o della follia di una sera, ma sono l’esito di una questione strutturale che organizza le relazioni fra uomini e donne. A volte, le donne sono così consapevoli del destino che le aspetta, da pagarsi da sole e in anticipo il loro funerale. Non possiamo sopportare oltre di perdere l’ennesima donna, l’ennesima sorella. Da anni gridiamo: non una di meno! A partire dall’8 marzo 2021, abbiamo dato vita a un rituale, con cui ogni 8 del mese ci riuniamo per ricordare le donne uccise. Abbiamo rinominato questa piazza Piazza Non una di meno, e alla fontana abbiamo legato un lucchetto e un panuelo per ognuna che non c’è più. Avevamo bisogno di dire i loro nomi, di non permettere che fossero dimenticate, e di lasciare un monito e un ricordo per chiunque passasse da questa piazza: sono in tante di noi a mancare. La violenza uccide ancora decine, centinaia di donne. Non ci bastano più neanche i lucchetti, i panuelos, le lacrime e i lumini. Per questo oggi non vogliamo più zucche di ricordo, ma zucche da tirare contro un sistema che sostiene, nasconde e riproduce la violenza.

Il motivo per cui molto spesso è difficile uscire dalla violenza è il silenzio che la circonda. Tutti tengono la bocca chiusa, come quando si mangia l’aglio, e dopo per quieto vivere nessuno parla. E’ sgradevole, infastidisce le altre persone, rovina l’umore (e i gruppi di amici, i gruppi di compagni, i festival) non si fa. Per fare un violento ci vuole un villaggio. La complicità e l’omertà sono due dei dispositivi più diffusi e brutali che costringono le donne alla solitudine e al silenzio. E’ difficile raccontare quello che sta capitando perché non sarai creduta, perchè ti verrà detto che è una cosa da niente, che fai tanto rumore per nulla, che il problema sei tu, che tutto sommato, te la sei andata a cercare. A volte sei troppo libera nelle scelte sessuali, altre hai la colpa di consumare alcool o droghe, altre ancora basta il fatto di essere una donna, e quindi sempre e in ogni caso colpevole. In queste reazioni si moltiplica la colpevolizzazione di chi vive la violenza, e scompaiono i nomi di chi la agisce. Gli uomini abusanti, i maltrattanti, non hanno nome e volto, ma sono sempre le donne sotto il fascio di luce delle accuse. Noi vogliamo spezzare il cerchio dell’omertà e della complicità. Vogliamo che ogni silenzio diventi parola, che il disagio conseguente alla denuncia di una violenza diventi un luogo che le persone – uomini e donne – imparino a vivere. Da quel disagio che consegue alla rottura degli equilibri consolidati, fondati sulla violenza, possono nascere relazioni e contesti molto più vivibili per tutte e per tutti. Non chiudiamo più la bocca, come se avessimo mangiato l’aglio. Impariamo a non stare più zitte, ad essere fastidiose, guastafeste, arrabbiate, insopportabili. Questa sera con tutto l’aglio che non abbiamo voluto ingoiare, ci facciamo una zuppa e non teniamo la bocca chiusa.

In questa vita in cui siamo educate al silenzio, alle lacrime e alla violenza, a volte sembra quasi sparire lo spazio per il piacere. La sessualità non ci riguarda, non ci riguarda il godimento. Le zucchine sono solo zucchine, il corpo è fatto per procreare. Eppure, questo corpo che ci è stato spesso sottratto (per fare figli per la nazione, per compiacere un partner o un marito, per esercitare il lavoro di cura verso chiunque ci circondi) è un corpo che desidera, esplode di vita, pretende di godere. Vogliamo finalmente poter vivere vite fatte di piacere, scoprire insieme le strade della sessualità che ci attraggono, che ci incuriosiscono. Vogliamo poter sperimentare da sole, in due, in tante/i. Vogliamo farlo con e senza oggetti, con e senza amore, con e senza relazioni. Così, le zucchine non saranno più solo zucchine, e i nostri corpi diventeranno luoghi da esplorare e far vibrare. La nostra zuppa ci accende anche i sensi, fa venire la pelle d’oca, ci fa sospirare.

Così sulle cipolle, le carote, la zucca, l’aglio e le zucchine irroriamo l’Olio. Olio che lega insieme le nostre vite, che cura le ferite, che lenisce il dolore. Olio che scorre e trasforma, che nasce dal calore del sole, che nutre la nostra pelle, il nostro sangue, il nostro cuore. Non vogliamo più camminare sulle spine ma vogliamo imparare a danzare sull’olio. La nostra è una pratica femminista di memoria, di cura, di rabbia, di lotta e di piacere, nella quale inventare altri mondi oltre l’abuso e la violenza.

 

 

 

 

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27 NOVEMBRE: CORTEO A ROMA

In 100000 per le strade di #Roma a gridare: ci vogliamo vive, ci vogliamo libere!!

Ripartiamo col cuore pieno della potenza della marea: da cinque anni, una quotidianità fatta di liberazione e rivoluzione, molto oltre le singole date. Ci siamo ritrovate in piazza per dimostrare al mondo che non siamo sole, per far sentire la nostra voce, per fare sentire la voce anche di quelle donne che non sono più con noi. Ci siamo riunite in piazza per dimostrare che la violenza che subiamo tutti i giorni non ci paralizza, ma ci dà la forza di voler continuare a lottare.

Qui il nostro intervento:

Abbiamo spesso pianto per le ingiustizie, per le ferite e le discriminazioni. Siamo nate con un futuro già scritto, costrette a giocare con le bambole, ad imparare ad essere docili e remissive, a non disturbare mai. Abbiamo dovuto sopportare quel commento per strada, la mano che cade toccandoci il culo, il professore molesto, il medico intrusivo, il capo che naturalmente si aspetta di pagarci meno e perchè no, che qualche prestazione extra lavorativa gli sia dovuta. E dopo queste lacrime abbiamo smesso di piangerle da sole, e abbiamo iniziato a piangerle insieme. A parlare, a scoprire che non era solo nel nostro piccolo che il mondo ci tormentava, ma le nostre piccole e grandi disgrazie erano in realtà un male comune, un regime di genere fatto di dominazione e segregazione. E allora ciò che ci faceva piangere abbiamo iniziato a tirarlo, a tagliarlo tutte insieme per farne cibo per il nostro corpo e per le nostre menti.

Troppo spesso abbiamo creduto che fosse normale vivere relazioni in cui ci veniva somministrato a volte il bastone, a volte la carota. La violenza maschile contro le donne e di genere è strutturale, e riguarda tutti gli ambiti delle nostre vite. Sul lavoro, a scuola, nei gruppi di elezione, in famiglia, in coppia. Nelle relazioni intime può succedere a tutte. Perchè viviamo in una società fondata sullo stupro e sull’abuso, e perchè l’abuso è normalizzato nelle nostre vite quasi che debba inevitabilmente andare così. La violenza è una spirale. Può iniziare con una parola aggressiva, con un ricatto emotivo, con un controllo crescente (sul nostro telefono, le nostre amicizie, le nostre uscite, le nostre vite). Poi cresce e si espande, riguarda la libertà di disporre delle nostre reti di affetti, delle risorse economiche, della casa. Esplode in tante forme, da quella psicologica a quella fisica, può essere sottile e capillare. Molto spesso è un ciclo: arrivano le scuse, i pentimenti. E poi la luna di miele, dove tutto torna meraviglioso, dove ci sembra di poter dimenticare la violenza subita. Che invece torna ancora, perchè è una spirale. Non esiste un modo semplice ne unico per uscirne. Si possono trovare però delle strade insieme: provando a parlarne con le amiche, con le sorelle, con le compagne. Rivolgendosi ai centri antiviolenza o alle assemblee femministe. La liberazione dalla violenza è un processo lungo e faticoso, ci richiede di trasformare profondamente la nostra vita. E ognuna lo fa a modo suo. Insieme possiamo prendere e spaccare il bastone e tagliare  la carota per gettarla nella pozione magica della sorellanza.

Troppe volte abbiamo acceso candele per ricordato le donne, le lesbiche e le persone trans uccise. Dal proprio compagno, da un parente, da un amico. I femminicidi sono ancora oggi decine e centinaia. Non sono frutto di un raptus o della follia di una sera, ma sono l’esito di una questione strutturale che organizza le relazioni fra uomini e donne. A volte, le donne sono così consapevoli del destino che le aspetta, da pagarsi preventivamente il loro funerale. Non possiamo sopportare oltre di perdere l’ennesima donna, l’ennesima sorella. Da anni gridiamo: non una di meno!
Abbiamo bisogno di dire i loro nomi, di non permettere che siano dimenticate, e di lasciare un monito e un ricordo: sono in tante di noi a mancare. La violenza uccide ancora decine, centinaia di donne. Non ci bastano più neanche i lucchetti, i panuelos, le lacrime e le candele. Per questo oggi non vogliamo più candele di ricordo, ma sassi da tirare contro un sistema che sostiene, nasconde e riproduce la violenza.

Il motivo per cui molto spesso è difficile uscire dalla violenza è il silenzio che la circonda. Tutti tengono la bocca chiusa, per quieto vivere nessuno parla. E’ sgradevole, infastidisce le altre persone, rovina l’umore (e i gruppi di amici, i gruppi di compagni, i festival) non si fa. Per fare un violento ci vuole un villaggio. La complicità e l’omertà sono due dei dispositivi più diffusi e brutali che costringono le donne alla solitudine e al silenzio. E’ difficile raccontare quello che sta capitando perchè non sarai creduta, perchè ti verrà detto che è una cosa da niente, che fai tanto rumore per nulla, che il problema sei tu, che tutto sommato, te la sei andata a cercare. A volte sei troppo libera nelle scelte sessuali, altre hai la colpa di consumare alcool o droghe, altre ancora basta il fatto di essere una donna, e quindi sempre e in ogni caso colpevole. In queste reazioni si moltiplica la colpevolizzazione di chi vive la violenza, e scompaiono i nomi di chi la agisce. Gli uomini abusanti, i maltrattanti, non hanno nome e volto, ma sono sempre le donne sotto l’occhio di bue delle accuse. Noi vogliamo spezzare il cerchio dell’omertà e della complicità. Vogliamo che ogni silenzio diventi parola, che il disagio conseguente alla denuncia di una violenza diventi un luogo che le persone – uomini e donne – imparino a vivere. Da quel disagio che consegue alla rottura degli equilibri consolidati, fondati sulla violenza, possono nascere relazioni e contesti molto più vivibili per tutte e per tutti. Non chiudiamo più la bocca. Impariamo a non stare più zitte, ad essere fastidiose, guastafeste, arrabbiate, insopportabili.

In questa vita in cui siamo educate al silenzio, alle lacrime e alla violenza, a volte sembra quasi sparire lo spazio per il piacere. La sessualità non ci riguarda, non ci riguarda il godimento. Il corpo è fatto per procreare. Eppure, questo corpo che ci è stato spesso sottratto (per fare figli per la nazione, per compiacere un partner o un marito, per esercitare il lavoro di cura verso chiunque ci circondi) è un corpo che desidera, esplode di vita, pretende di godere. Vogliamo finalmente poter vivere vite fatte di piacere, scoprire insieme le strade della sessualità che ci attraggono, che ci incuriosiscono. Vogliamo poter sperimentare da sole, in due, in tante/i. Vogliamo farlo con e senza oggetti, con e senza amore, con e senza relazioni. Così i nostri corpi diventeranno luoghi da esplorare e far vibrare.

Non vogliamo più camminare sulle spine ma pretendiamo di danzare. La nostra è una pratica femminista di memoria, di cura, di rabbia, di lotta e di piacere, nella quale inventare altri mondi oltre l’abuso e la violenza.

Questo è Il rituale delle sorelle. Questa è la risignificazione di ciò che ha costretto le nostre vite, che le ha condizionate. Oggi ne facciamo cibo comune, lo tagliamo insieme, lo passiamo di mano in mano, lo lasciamo cuocere al fuoco della nostra potenza, lo facciamo diventare nutrimento. Oggi nominiamo le parole che ci liberano dalla violenza, perchè liberarsi è possibile, ma solo insieme. Verso una rivoluzione che sarà femminista o non sarà, non una di meno!

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NON UNA TOMBOLA DI MENO

Nel nostro percorso di avvicinamento al 25 novembre, abbiamo deciso di concedersi una serata di svago, di sorellanza, dettata dal bisogno di stare insieme.

Quello che ci ha ispirate è stata  l’idea di una tombola Transfemminista.

Una serata che ci è servita per ricalibrare forze ed energia in vista della manifestazione a Roma per il 27 novembre.

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Rito di sorellanza

Come ogni 8 del mese ci siamo ritrovate in Piazza Non Una di Meno (ex Santissima Annunziata) per aggiungere i lucchetti e i panuelos delle donne* morte per femminicidio. Ogni lucchetto che si chiude è un’onda di rabbia in più che ci spinge a gridare

CI VOGLIAMO VIVE, CI VOGLIAMO LIBERE

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CONTRO LE DISCRIMINAZIONI DI STATO (#moltopiùdizan)

Dopo l’affosamento del ddl Zan abbiamo deciso di scendere in piazza perchè ESISTIAMO e RESISTIAMO.Mentre loro applaudono alla miseria della politica, noi sovvertiamo il mondo ogni giorno.

Riportiamo qui sotto il nostro intervento:

Nonostante i giochi di potere parlamentari, nonostante i continui tentantivi da parte di questa classe di difendere i loro privilegi; ci ritroviamo tutte tutti e tuttu qui in questa piazza per rivendicare la nostra favolosità, per rivendicare i nostri corpi non conformi, le nostre vite impreviste, i nostri desideri come mezzo di autodeterminazione.

Esiste uno scollamento radicale tra la quotidianità delle nostre vite e un’intero sistema istituzionale cieco, sordo e feroce. Attraverso i nostri corpi rivendichiamo le nostre esistenze. Il mondo su cui il Senato a fatto precipitare la tagliola è già qua: esiste, resiste, è furioso.

Siamo qui anche quando quelli richiusi nei loro palazzi esultano per aver affosato una legge che per quanto monca era comunque necessaria per parlare di parità di diritti e di reale lotta alle discriminazioni.

Il DDL Zan non risolve la violenza quotidiana che donne lesbiche, queer, persone gay e trans vivono. Non risolve una cultura fondata sull’abuso, sullo stupro e sulla cancellazione delle vite di chi non corrisponde al canone della cittadanza, bianco, abile, cis, eterosessuale. Allo stesso tempo, il DDL Zan è un simbolo di un discorso politico giocato sulla nostra pelle. L’atto di bloccarlo, è giocato sulla nostra pelle. La volgarità dei discorsi in aula, la loro ferocia, si gioca sulla nostra pelle. E noi di questa pelle ne facciamo rivoluzione. Quando la politica impone il silenzio, a quel punto come una marea ci riprendiamo tutto

Come movimento transfemminista Non Una di Meno abbiamo sempre sostenuto che il DDL Zan era sì necessario ma non sufficiente, perché, e le piazze piene di giovanissime e giovanissimi degli ultimi giorni lo dimostrano, vogliamo #moltopiùdiZan! 

Come transfemministe, soggettività lgbtqia+, queer e non binary vorremmo tranquillizzare i parlamentari che esultavano due giorni fa: state sereni, non sarà di certo l’affossamento di una legge a fermare la nostra rabbia e la nostra lotta! 

Vogliamo #moltopiùdiZan perché Sappiamo bene che non bastano pene più severe se le premesse della violenza che subiamo ogni giorno restano immutate: il diritto penale e il carcere non risolvono problemi di natura prima di tutto sociale e culturale.

Vogliamo e volevamo #moltopiùdiZan perché rivendichiamo misure di contrasto alle discriminazioni e all’esclusione dai luoghi di lavoro, l’educazione sessuale e all’affettività nelle scuole di ogni ordine e grado, vogliamo spazi sicuri e fuori dalle dinamiche patriarcali, vogliamo il pieno riconoscimento della genitorialità per tutt*.

Urliamo #moltopiùdiZan perché reclamiamo il rifinanziamento strutturale di consultori e centri antiviolenza, pubblici e autogestiti, per le donne e per le persone LGBT*QIAP+, vogliamo più case rifugio, perché per uscire dalla violenza abbiamo bisogno di spazio, dentro e fuori casa, oltre il decoro, oltre l’isolamento in cui vorrebbero confinarci. 

Vogliamo e volevamo #moltopiùdiZan perché vogliamo la fine della rettificazione genitale alla nascita per le persone intersex, la piena depatologizzazione dei percorsi di transizione e una riforma della legge 164/1982, una legge che vieti le cosiddette “terapie di riconversione”. 

Non cascheremo nella solita favoletta patriarcale che punta a dividere donne cis da donne trans, donne per male e donne per bene, corpi che meritano di esistere e di vivere una vita degna e corpi che semplicemente non esistono, non sono visti e riconosciuti. 

Alle vergognose scene viste in Parlamento rispondiamo che la marea transfemminista si sta rialzando, verso il Corteo Nazionale contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, perché nessuna resti indietro, riprendiamoci tutto!

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🚺⚧ Mai più invisibili

Il 23 ottobre Non Una Di Meno é scesa in piazza con un Flashmob davanti all’Ospedale Careggi in occasione della giornata di mobilitazione per il riconoscimento di vulvodinia, neuropatia del pudendo, fibromialgia, endometriosi e dolore pelvico:

Malattie diverse tra loro che hanno in comune il fatto di colpire prevalentemente le persone assegnate femmine alla nascita (AFAB). Nonostante la loro diffusione, sono accomunate da un ritardo diagnostico tra i 5 e 7 anni e questo è dovuto alla mancanza di formazione del personale medico e agli scarsi finanziamenti alla ricerca. Ma anche a un sistema medico che costantemente sottovaluta il dolore delle donne e delle persone AFAB, giudicandolo normale, e che sminuisce i sintomi, ritenendoli unicamente psichici. Anche quando queste malattie vengono diagnosticate, i problemi non finiscono: il Servizio Sanitario Nazionale non le riconosce e, per quelle riconosciute, le tutele sono quasi inesistenti

Per comprendere meglio di cosa si sta parlando ci teniamo anche a riportare una testimonianza

Lei ci scrive:
“Ho letto che raccogliete testimonianze: io soffro di vulvodinia. Cerco di riassumere la mia di esperienza anche se non è facile in poche righe far capire tutta la sofferenza soprattutto psicologica causata non solo dalla malattia in sé ma dalla ricerca logorante negli anni dapprima di una diagnosi, quindi di medici che si occupino o almeno conoscano queste patologie e poi di percorsi di cura per cercare almeno di alleviare il dolore, dato che la guarigione definitiva non è prevista. Ho 30 anni e i sintomi mi sono iniziati con i primi rapporti 10 anni fa (anche se dai racconti di mia madre pare che i sintomi di bruciore alla vulva siano iniziati da bambina). I vari ginecologi che mi hanno visitata nei primi anni hanno Confuso tale patologia con infezioni da candida e mi hanno prescritto cure antimicotiche lunghe mesi che hanno solo peggiorato la situazione. Ho avuto la diagnosi dopo 4 anni dalla comparsa dei sintomi: finalmente non mi sentivo più “pazza, isterica, frigida, nevrotica, non innamorata del partner o impaurita dal sesso”, come anche alcuni medici mi hanno fatta sentire!!! Speravo che alla diagnosi sarebbe seguita una cura adatta e invece è iniziata solo una ricerca infinita, soprattutto fuori la mia regione, di medici che si occupassero di tale patologia o almeno la sapessero riconoscere (per questo é definita “malattia orfana”). Da lì fino ad ora è stato un susseguirsi di medici e “cure sperimentali” inutili se non peggiorative: Parma, Milano, Bologna, Modena, Firenze, Perugia, Padova; ginecologi, sessuologi, psicoterapeuti, dermatologi, neurologi, proctologi, nutrizionisti, fisioterapisti, agopuntori, osteopati … Tantissimi soldi spesi inutilmente (“malattia da ricchi” viene chiamata) e tanta fatica mentale. Le mie relazioni intime sono compromesse moltissimo dalla mia situazione, mi sento “una donna a metà” e ho paura di non poter più avere una vita normale e “recuperare” il tempo perduto. Lavorare, uscire con gli amici, vestirsi con abiti attillati, andare al mare o fare sport sono diventate azioni faticose e non più comportamenti “naturali”. Inoltre dagli altri non vieni creduta né capita, il tuo dolore deve rimanere silenzioso, pena la sua ridicolizzazione. Devi giustificarti quotidianamente con gli altri per i tuoi sintomi o per i tuoi frequenti malumori. Certi giorni mi congratulo con me stessa per essere arrivata sin qui senza impazzire e altri giorni invece mi chiedo come possa continuare così e se sia condannata a portare la vulvodinia con me nella tomba. Grazie per l’attenzione”

In tutto ciò siamo scese in piazza per ribadire che di fronte ad un sistema sanitario patriarcale non rimaniamo e non rimarremo mai in silenzio. Lotteremo per aver diagnosi chiare, esatte e celeri, per aver cure garantite e soprattutto gratuite.

Continueremo a scendere nelle piazze non solo per raccontare le storie, ma per uscire dall’invisibilità in cui queste sistema vorrebbe rinchiuderci. Distruggeremo quella logica che come ti assegna il genere donna ti assegna anche la normalizzazione del dolore.  Anche se abbiamo una vagina , vogliamo smettere di soffrire inutilmente.

 

Il problema è il Sistema Sanitario che normalizza il nostro dolore e no, noi non siamo pazze!

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Scioperiamo tutti i giorni!

La storia di Luana D’orazio ci ha insegnato che per i padroni delle fabbriche le nostre vite valgono l’8% in più sulla produzione, le mille storie che vengono raccontate ogni giorno ci insegnano che per molti uomini e, tristemente, anche per alcune donne le nostre vite valgono meno di zero.
L’immaginario del sindacato classico ci dipinge invece come uguali ai nostri colleghi uomini, e le vertenze portate avanti spesso si limitano a trattare temi come la busta paga e la quantità di ore passate sul posto di lavoro, quando invece come sappiamo bene noi non smettiamo mai di lavorare e produrre, subendo un trattamento sempre dispari rispetto ai nostri colleghi.
Attaccare lo sfruttamento non nominando le molestie, le violenze e i ricatti che subiamo quotidianamente in quanto donne e soggettività lgbtqi+ non serve a rafforzare la così detta lotta di classe ma solo ad invisibilizzare e marginalizzare quella parte del mondo del lavoro che non si riconosce nel ruolo del lavoratore maschio, etero e bianco.
Siamo quelle che oltre a soffrire per orari massacranti e paghe da fame dobbiamo subire i commenti di padroni e colleghi. Siamo quelle che oltre a temere di morire schiacciate da un macchinario rischiano di essere stuprate nei bagni o nei parcheggi dei posti di lavoro. Siamo quelle che se provano ad alzare la testa rischiano pure di vedersi portare via i figli. Siamo quelle che se dedicano troppo tempo al lavoro fuori casa non sono buone madri, ma se non lo fanno la coperta familiare diventa troppo corta ed è sempre #tuttacolpanostra. Siamo quelle che rinunciano al lavoro pagato e alla propria autonomia per lavorare gratis in famiglia, curando la casa e i figli, perché a parità di mansione guadagnamo sempre meno dei nostri colleghi uomini, compagni e mariti. Siamo quelle che svolgono il triplo del lavoro, per di più a gratis, per supplire alle mancanze strutturali di un welfare sempre più inesistente, specialmente in pandemia e perché, si sa, a noi ci viene “per natura” la cura domestica e della prole. Siamo quelle a cui, durante un colloqui di lavoro, viene chiesto se intendiamo mettere su famiglia. Siamo quelle che se trans, se lesbiche, bisessuali, intersex o queer veniamo sistematicamente discriminate, mobbizzate e licenziate, se il lavoro poi lo abbiamo trovato. Siamo quelle che senza reddito di autodeterminazione non possono fuoriuscire da situazioni di violenza domestica o lavorativa, siamo quelle che non possono mai pretendere troppo.
Un paio di giorni fa era sciopero generale, giornata importantissima, giornata in cui c’eravamo anche noi.
Magari non ci avete visto in piazza perché facciamo lavori talmente invisibili, precari e sottopagati da non averlo nemmeno mai incontrato un sindacato, oppure perché siamo talmente ricattate da non avere scelta. Invece noi esistiamo, noi ci siamo e vorremmo che ci fosse anche la nostra voce, che si ribadisca tutte, tutti e tuttu insieme che chi ci ruba il tempo, chi ci sfrutta dentro e fuori il posto di lavoro, dentro e fuori casa, chi ci molesta, discrimina e licenzia fa parte dello stesso sistema patriarcale di chi ci uccide, stupra e stalkera. Non possiamo combattere il padroncino di turno senza lottare anche e sempre contro chi ci fa violenza in tutti gli altri ambiti della nostra vita. #sorellaioticredo e #sorellanonseisola valgono sempre, dentro e fuori casa, dentro e fuori la fabbrica, dentro e fuori qualunque posto di lavoro.

Anche per questo saremo in piazza il #27novembre – Giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne

Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo

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Assemblea Nazionale Non una di meno

Si conclude oggi l’assemblea nazionale di NON UNA DI MENO a #Bologna. Dopo due anni in presenza, di nuovo vicine, finalmente anche col corpo. Abbiamo condiviso prospettive, strumenti, pratiche e orizzonti di futuri possibili. Verso il 27 novembre a Roma e una nuova fase di mobilitazione contro la violenza maschile e di genere, per continuare a essere il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce
Con Pat nel cuore

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Verità e giustizia per Martina Rossi.

La verità per Martina Rossi non ci interessa, non ci interessa perché già la sapevamo. Sono ormai 10 anni che sappiamo tuttə fin troppo bene cosa possa essere successo a Martina nel suo tentativo di sottrarsi ad uno stupro.

Sono 10 anni che viviamo l’ipotesi del suicidio, portata avanti dalla difesa dei due aggressori, come l’ennesima violenza su ognunə di noi.

Si perché se ti stuprano e sopravvi sei una troia. Se provano a stuprarti e cerchi di proteggerti sei una suicida.

Anche della giustizia ce ne frega poco, perché non é alla giustizia dei tribunali che affidiamo le nostre vite. Non saranno quegli stessi organi che attuano su di noi ogni forma possibile di violenza istituzionale a trasformarsi magicamente in cavalier serventi pronti a sguainare la spada per noi. E di certo non stiamo qui a cercarci un cavaliere servente.

La giustizia che vorremmo è altra, vorremmo che il centro del dibattito non fosse sempre la donna che ha subito. Vorremmo che non ci si concentrasse su giochetti raccapriccianti atti solo ad alzare la polvere e invertire i ruoli fra chi stupra e chi invece è vittima di stupro.

Ma la realtà è che possiamo urlare a testa alta verità e giustizia per Martina Rossi perché i suoi genitori e, con loro, tutte le donne e le soggettività stanche della violenza patriarcale, hanno lottato per 10 anni affinché questa verità non sparisse nel polverone degli avvocati e nei labirinti dei tribunali.
Giustizia perché dopo questi lunghi, faticosi e dolorosi 10 anni di lotta possiamo sorridere e dire che LO STUPRO NON SI ASSOLVE non è solo uno slogan.

Per Martina

Per le altre

Per tuttə noi

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